Non è mai un buon segno se ancor prima di vedere un film o, eventualmente, di avvicinarsi a tutto un apparato paratestuale per predisporsi, chi scrive una recensione ha grosso modo già chiaro che cosa scriverà. Ma nel caso dei biopic, aspetto che abbiamo già accennato riguardo ad A Complete Unknown (e facendone un'eccezione), è fin troppo comprensibile, perché paiono godere di una sorta di monotona proprietà invariantiva. La storia di ogni personaggio, tanto più se i punti culminanti della sua vita sono piuttosto noti, anche cambiando l'ordine e le caratteristiche degli addendi, si sviluppa sempre allo stesso modo. Che sia un fotografo, un pittore, un politico o un calciatore, fa poca differenza, se non l'ambiente e le dinamiche. Ma non certo la struttura, la modalità di narrazione pensata per momenti salienti, per epifanie prevedibili frutto di uno stesso ciclo dimostrativo che, cercando di evidenziare il personaggio, lo schiaccia in uno sfondo sempre troppo simile a se stesso per risultare davvero interessante.
Lee Miller mischia le carte e si trincera dietro le apparenze, galleggiando nell’ampio mare della medietà del genere biografico. Realizzato dopo una lunga gavetta nelle serie televisive da Ellen Kuras, abile direttrice della fotografia per Gondry (Se mi lasci ti cancello, Be Kind Rewind), Spike Lee (Summer of Sam, He Got Game, tra gli altri) e Scorsese (i documentari), e basato sul libro The Lives of Lee Miller di Anthony Penrose (il figlio di Lee), il film sulla celebre fotografa di guerra cavalca, perlomeno inizialmente, l’attuale corrente di rivendicazione di genere, indiscutibilmente giusta e legittima (non è questo il punto), ma talmente onnipresente nelle storie per il cinema da far venire il malizioso dubbio che in questo momento sia l’imprescindibile viatico per poter parlare delle donne. Di qualunque donna abbia un carattere deciso e volitivo. Com’è appunto Lee, immersa in un mondo troppo tradizionalista per la sua ambizione documentale di accedere alla verità per rivelarla.
Infatti Lee, stanca di essere una fotografia (proviene da un passato di modella di successo – fu anche la statua senza braccia de Il sangue di un poeta di Cocteau), le fotografie le vuole scattare, forte anche del clima respirato nell’ambiente che frequenta, popolato da figure come Man Ray, Picasso, Paul Éluard. Il passaggio da soggetto a fonte della visione, però, in un mondo di regole dettate dagli uomini non è un semplice avvicendamento di prospettiva. Lee, donna delle prime volte (la sua carriera di modella finì quando nel ’28 pubblicizzò una marca di assorbenti, destando grande scandalo), lotta per avere un accesso alla visione, ancor prima di concepire in che modo realizzare l’immagine. Il diaframma è storico e sociale, non più ottico: Lee, tramite l’interpretazione di Kate Winslet – inappuntabile: anima e cuore dell’intera operazione – lotta strenuamente per accedere a un punto di vista possibile, aggirando le regole retrive britanniche che vietavano alle donne di essere inviate nelle zone di guerra. La protagonista supera le barriere per poter vedere, siano esse dovute alla consuetudine passatista o ai confini del lecito visivo (su tutto aleggia sempre il concetto di irrappresentabilità dell’orrore della Shoah, da Adorno in poi): è questa l’idea, piuttosto ovvia, di Ellen Kuras.
Lievemente più interessante è come la regista, invece, tratta la concezione dell’immagine, la traduzione concettuale della realtà che motiva la scelta del soggetto e ne richiede la fissazione su pellicola. Kuras non mostra i prodotti di Lee, le sue creazioni; ne mostra lo sforzo, la ricerca, anche l’angoscia ossessiva patita per rendere concreta la realtà, ma la trasposizione cinematografica è sempre un’immagine dell’immagine, una mise en abîme, un filtro tra la realtà documentaria e la sua rappresentazione cinematografica. Delle celebri fotografie di Lee Miller (o con Lee protagonista, come quella scattata nel ‘45 da David Sherman nella vasca da bagno di Hitler), Kuras offre il contesto, la cura dell’ambientazione, l’aura densa in cui furono raffigurate, anche l’illusorio tentativo di una connessione emotiva con lo spettatore, ma mai, se non attraverso filtri visivi o riduzioni, l’immagine risultante. Quest’immagine mancante, un’omissione che intende separare la ricostruzione dalla realtà effettiva, rimanda a uno spostamento sui titoli di coda, dove le foto originali della fotografa sono recuperate, generando il desiderato effetto di agnizione sollecitato durante lo svolgimento del film.
Sull’ipotesi di immagine mancante Kuras edifica tutto il senso del film e la pregnanza simbolica della protagonista. Lee è la testimone, è colei che ha lottato per vedere, atto propedeutico alla fissazione su pellicola per rivelare la Storia. Senza la rivelazione, l’esistenza è negata e si alimentano le ferite impossibili da rimarginare. È questo che causa la reazione rabbiosa all’interno della redazione di Vogue dopo la mancata pubblicazione delle sue foto sui campi di sterminio, ossia il tentativo maldestro di una rimozione del trauma per timore di generarne altro, concetto ribadito dal racconto dell’abuso personale subito durate l’infanzia.
Anche se l’equivalenza immagini-memoria è un’ovvietà che non merita neanche più di essere citata, è però in questo sforzo di costruzione del contesto, nella profonda diversità dei pantoni cromatici utilizzati nelle varie fasi della vita della protagonista, nell’interpretazione sofferta e talvolta sfrontata di Kate Winslet che il film di Kuras, pur nella sua prevedibilità di genere, riesce a serbare una sua dignità. Se non di struttura, perlomeno nella forma esteriore.
La vita e la carriera di Elizabeth 'Lee' Miller, una modella che divenne un'acclamata corrispondente di guerra durante la Seconda Guerra Mondiale.