I biopic in grado di sganciarsi da una struttura sclerotica e inflessibile sono davvero rari, al punto che, al di là del soggetto trattato, ciò che si racconta sembra sempre la stessa storia. Per chiunque, in ogni ambito. La fluidità di una vita si perde spesso nell’infinito circuito meccanicistico (o addirittura messianico) di ascesa, inopinata pausa e definitiva resurrezione (oppure caduta rovinosa, nelle storie che lisciano il pelo al dramma), il tutto espresso con una scrittura episodica, aneddotica, che punta alla silloge esistenziale, nutrita di highlights. Perfettamente consapevole di questo rischio, James Mangold lo aggira, concentrandosi sull’evoluzione del frammento e decidendo di collegarsi implicitamente alla versione poliedrica e cangiante del Dylan di Todd Haynes in Io non sono qui, in qualche modo negandolo/anticipandolo, andando alle radici, a quando Dylan era ancora uno sconosciuto in formazione.
Mr. Dylan comes to town, infatti, all’inizio di A Complete Unknown. È il 1961 e c’è una scena folk in fermento, che vive della grande aura del suo nume tutelare, Woody Guthrie. Woody, il cantore della Grande depressione, il quale, in un mondo che si sta apprestando alla crisi missilistica di Cuba, all’attentato a JFK e lotta per ottenere il Civil Rights Act, è la genesi, la matrice, ma non può più essere lo specchio fedele di un mondo in continuo e drammatico divenire, che necessita di una nuova forma di espressione in cui riconoscersi per poi agire. Nel film lo capisce Sylvie Russo (Elle Fanning), compagna di Dylan e icona nella neve del suo secondo fortunatissimo album del 1963 The Freewheelin'. Non lo comprende invece Pete Seeger (Edward Norton), emblema della tradizione, presenza carismatica del Newport Folk Festival che Dylan mise a ferro e fuoco il 25 luglio del 1965, quando decise che il tempo del folk (per lui) era giunto al termine. Il canto del corpo elettrico è il percorso ruotante lungo questi due poli tracciato da Mangold per il personaggio Dylan e raccontato attraverso una parabola che parte dall’ingresso sulla scena newyorchese, transita dal riconoscimento ottenuto dai padri nobili della religione folk e approda, tra relazioni contrastanti e ricerca artistica, allo strappo rock, ritenuto un tradimento dalla base dura e pura (in una prospettiva addirittura intercontinentale: il «Giuda» che nel film gli gridano a Newport in realtà avvenne a Manchester, in Inghilterra).
Questa parabola Mangold la conduce con uno stile sobrio, estremamente rispettoso della materia, molto classico (coerentemente con il riferimento a Perdutamente tua e alle celebri stelle con le quali accontentarsi), ma tutt’altro che scontato. La sua incidenza si nota nella scelta di una determinata prospettiva, nell’individuazione di una precisa direttrice simbolica perseguita come costante per tutta la durata della storia, in modo da consentirle di diventare il segno e la registrazione dei vari mutamenti di stato. Tutte le scene sono costruite attraverso un’attenta tessitura delle traiettorie dello sguardo dei vari personaggi. Ogni evento si sviluppa e si plasma davanti agli occhi ora ammirati (nella prima parte) ora sospettosi (nella seconda) di chi osserva. È chi guarda, secondo Mangold, che rende esplicito l’atto altrui, che in qualche modo fornisce ad esso il significato e ne registra mitopoieticamente il passaggio alla Storia. Estremizzando, si potrebbe addirittura dire che tutte le tensioni, le consapevolezze e il senso stesso del film sedimentano sui piani di reazione dei personaggi. Reazioni che dividono il film drasticamente in due, tra il momento della formazione, in cui il suono e le parole di Dylan concepiscono la magia della creazione davanti agli occhi ammirati di Seeger, Guthrie, il pubblico ecc., e il tempo in cui quella stessa magia diventa in Dylan arma consapevole per generare venerazione e quindi successo, e poi sospetto che possa tramutarsi in voltafaccia, in egocentrismo.
Uno dei meriti di A Complete Unknown è anche quello di trattare Dylan con rispetto pur evitando l’agiografia, anzi, stigmatizzandone tra le righe, sempre attraverso il giudizio che passa negli occhi degli altri, qualche comportamento dettato dall’accrescimento dell’ego. «Why did you come here, what to make me watch you?», perché sei venuto qui, per farmi guardare cosa stai facendo?, gli dice Joan Baez (Monica Barbaro, appena nominata all’Oscar) dopo essere stata svegliata nel cuore della notte dagli accordi di una canzone appena abbozzata. È il 1965 e gli splendidi colori pastello del periodo precedente tratteggiati da Phedon Papamichael si sono trasformati in ombre fumose, screziate da neon che Dylan affronta inforcando un paio di lenti scure con cui “può vedere dentro l’anima”, in una trasformazione nel cliché poetico vivo fin dai tempi di Omero.
Chalamet, al netto del naso prostetico, è un Dylan credibile, al contempo fragile e accentratore, spesso riflessivo e chiuso nella sua dimensione intima, capace di ricreare i classici con una voce che pur imitando l’originale è dotata di un timbro personale che ne arricchisce l’interpretazione (per altro nominata all’Oscar). Lo sguardo filiale, di un figlio affettuoso che sa di essere ormai diventato genitore del proprio padre, che il suo Dylan dedica a Guthrie nel finale del film è un momento di sospensione incantevole, perché fornisce attraverso il duplice metro su cui è edificato il film (il fondamento dello sguardo, la sobrietà della regia) il grato riconoscimento della tradizione e la sua successiva legittimazione, sfrecciando su una Triumph, verso il futuro della musica americana.
New York, anni 60: il giovane musicista del Minnesota Bob Dylan si sta affermando come cantante folk. Grazie all'inconfondibile fascino delle sue canzoni, la sua popolarità travalica presto i confini del Nord America regalandogli un successo mondiale.