“Say it again”, diceva e ripeteva il filosofo-santone di The Master, Lancaster Dodd, al suo amico e allievo Freddie Quell. “Say it again”. Ridillo. Il nome, intendeva. Il nome della persona che aveva davanti, il nome da dare alle cose. E quel nome arrivava – “Freddie Quell” – ma ogni volta erano parole vuote, oggetti, corpi puri, grossi, pesanti e impenetrabili.
“Andy!”, chiama invece di continuo Steve Jobs, rivolgendosi alla sua amica, assistente e collega Joanna Hoffman (una meravigliosa Kate Winslett, forse mai così brava), ogni volta creando confusione su quale dei due Andy dello staff stia in realtà indicando, se Andy Hertzfeld, il capo dei programmatori, o Andy Cunningham, la responsabile della logista degli eventi Apple. “Which one?”, chiede ogni volta qualcuno, Jobs stesso o chi è con lui. “I can’t do this forever. I need one of them to change their name”, dice verso la fine Jobs: “Non può andare avanti così per sempre. Bisogna che uno dei due cambi nome”. Nella sua testa, come se fosse una sintesi dell’incongruo miscuglio di caratteri e psicologie che rendeva inafferrabile il capolavoro di Anderson, nulla deve essere confuso con altro, tutto deve essere preciso, semplice e lineare. Come i suoi vestiti, così anonimi da renderlo unico; come le stringhe di programmazione che lui stesso non sa comprendere e generare, ma dalle quali, quasi fosse uno scultore con l’argilla, tira fuori l’anima del suo mondo interiore. Un mondo anch'esso lineare, ma chiuso e binario: un progetto per lanciare un satellite nello spazio, e uno per farlo tornare indietro. Calcolare tutto dall’inizio, l’azione e la reazione, il begin e l’end del linguaggio di programmazione, il what, il then e l’if else. Niente lasciato al caso.
La sintesi impossibile fra anima e corpo, fra immagine e parola che Anderson toglieva al potere immaginifico del cinema stesso (con quella moto lanciata verso l’orizzonte del deserto e lasciata senza meta e senza ritorno), in Steve Jobs trova una sua evoluzione nella logica binaria del linguaggio informatico. E, un passo immediatamente dopo, trasforma quel linguaggio in sistema di pensiero, di economia, di potere immaginifico e pubblicitario.
Alla base di tutto c'è un’altra mente inaccessibile e chiusa simile a quella del Freddie Quell di The Master. Non più, però, una mente ottusa e greve, ma una delle più straordinarie menti creative dell'ingegneria americana, una mente che non si rivela, che resiste al continuo assedio di parole, richieste, persuasioni, spiegazioni, lamentazioni e ricostruzioni a cui lo sottopone il mondo. Una mente, all'opposto, che quello stesso mondo è in realtà pronta a modificare, plasmando le immagini, i pensieri, i numeri e i sogni degli altri. Steve Jobs piega il mondo al proprio circuito chiuso, e il cinema che ne racconta la vita, dopo aver pensato in passato che l'io potesse anche essere un altro, deve ancora una volta arrendersi all'evidenza per cui l'io, nell'altro, non vede nulla se non una superficie su cui riflettere la proprio grandiosità.
Essendo un film scritto da Aaron Sorkin, Steve Jobs lo si potrebbe tranquillamente recensire trascrivendo le battute fitte fitte, da screwball comedy, che lo sceneggiatore ha cominciato a sperimentare soprattutto con The Newsroom, laddove – giusto per fare dei distinguo – in The Social Network la frequenza altrettanto rapida dei discorsi ricalcava la frenesia isterica e onanista del suo protagonista, o forse l’immediatezza effimera delle chat. Steve Jobs, però, non è uno spirito solipsistico e vagamente autistico, come il Mark Zuckerberg pensato da Sorkin e Fincher. Steve Jobs è un uomo del XX secolo, un genio, un'icona, un brand; un uomo già diventato storia, la cui vita abbraccia due decenni del '900 e apre al secolo successivo, e oggi può essere raccontata come una classica traiettoria evolutiva che fra alti e bassi, cadute e rinascite, porta alla piena realizzazione di un'identità.
Steve Jobs deve solo seguire il suo programma. “You call Andy Cunningham ‘Andrea’”, gli dice a un certo punto Joanna. Tu già la chiami Andrea, Andy Cunningham. “It doesn’t matter what I call them. I know who I’m talking about when I’m talking. I need everyone else to call them different names”. Io lo so, dice Jobs, chi sto chiamando, quando lo sto chiamando. Ho bisogno che siano gli altri a chiamarli in un modo diverso” – e la questione sta tutta qui. È il mondo che deve adattarsi alla testa di Steve Jobs, non il contrario: lui, il creatore, dentro di sé la questione del nome da dare alle cose, delle differenze da stabilire, della linea più rapida da percorrere, l’ha già risolta. E toccherà al mondo trovare altri modi, oppure adattarsi ai suoi circuiti chiusi, ai suoi accessi negati, all'esclusività quasi spirituale della sue crezioni riproducibile ma da assurgere come prodotti unici, contro il credo informatico dell’open sourching voluto da Hertzfeld e contro il riconoscimento del lavoro altrui testardamente desiderato dall’ex socio Steve Wozniak.
La sfida di Steve Jobs, il film, e del suo sceneggiatore, sta tutta qui: trovare attraverso le parole, attraverso uno scontro sonoro, verbale e soprattutto concettuale (dentro e oltre le immagini, e in questo perfettamente in linea con The Master), il modo di raccontare e soprattutto capire uno dei più seducenti, influenti e forse anche spaventosi geni informatici di sempre. In tal senso il lavoro di Danny Boyle non è certo pari a quello di Sorkin (e sì, anche a quello di Fincher in The Social Network), ma ne è comunque al servizio, né sopra né sotto. Un lavoro che consiste nel dare al film un ritmo meccanico, ripetitivo, da continui punti a capo, e soprattutto nell’accostare le proprie immagini alle parole di uno sceneggiatore tanto bravo quanto ingombrante, quasi il vero e solo autore del film. Succede ad esempio nella scena del satellite Skylab, che si materializza alle spalle di Jobs e Joanna, nella porzione destra dell'inquadratura: immagini che non surclassano più il discorso, non lo evocano o non lo riverberano, ma semplicemente gli stanno a fianco, riconoscendo uno statuto ormai distinto fra le due entità di cui il cinema è fatto, la parola e la luce.
In fondo, a pensarci, un computer stesso lavora nello stesso modo: la struttura è di parole, di numeri, di stringhe, di ordini; il risultato un suono (“Hello”, come Jobs vorrebbe far dire al suo primo Mac nella prima scena del film) o un'immagine, magari lo squalo del desktop d'apertura del suo primo iMac.
La sfida è questa. Ma è anche il suo contrario, o meglio il suo contraltare, perché il mondo si piega al volere di Steve Jobs, ma gli si rivolta pure contro, e lo fa di continuo, e lo costringe a discutere, litigare, trattare, mediare, sbagliare, risolvere, perdere e ricominciare. Un mondo – una realtà di relazioni, di risultati, di aspettative, di compromissioni – che nel film gli si presenta sempre uguale, e sempre diverso. 1984: presentazione del Macintosh 128K. 1988: lancio del NeXT Computer. 1998: presentazione del primo iMac alla Davies Symphony Hall. Tre momenti e una rete di personaggi che ritornano, contro i quali Jobs affronta vecchi e nuovi problemi, le loro evoluzioni o le loro complicazioni. A ogni presentazione pubblica di una sua creazione, Jobs si incaglia e procede, cade e si rialza. Perde un pezzo che lo porta a separarsi ulteriormente dagli altri (la madre di sua figlia, Chrisann Brennan; l’ex capo John Sculley; l’ex socio Steve Wozniak, l’ex impiegato Andy Hertzfeld) e al tempo steso ne guadagna uno per realizzare quell’ipotetico, metaforico viaggio di ritorno dello Skylab, che altro non è, poi, che il suo intero percorso creativo e professionale (dal momento che niente della creatività di Jobs è distaccato dall’interesse economico e finanziario).
Un percorso di andata e ritorno, una parabola perfetta che Joanna chiama “the Steve Jobs Revenge Machine” e che per il suo autore è semplicemente la giusta direzione di due pensieri: andata e ritorno, inizio e fine. Un sistema binario che alla fine, prima dello svelamento dell’iMac, porta all'agognata rivelazione pubblica del suo nome, fino a quel momento sempre interrotta sul più bello: “Ladies and gentleman… Steve Jobs”.
Non prima, però, che lo stesso Steve Jobs, ancora incompleto, ancora non tornato del tutto, abbia finalmente guardato in faccia la figlia Lisa, ormai ventenne, e anche lì, metodico e umano al tempo stesso, binario ancora una volta, sia stato in grado di essere padre e genio, creatore e genitore (oltreché figlio mancato). “I’m gonna put music in your pocket”, le dice. “Hundred songs. A thousand songs. 500 songs. Somewhere between 500 and a thousand songs right in your pocket, ‘cause I can’t stand looking at that inexplicable Walkman anymore”.
Il presente contro il passato, proiettato verso il futuro. Come del resto succede nel corso dell'intero film, pensato da Sorkin e messo in scena da Boyle come una sorta di Racconto di Natale di Dickens, con i tre colleghi-fantasmi di Jobs, Sculley, Wozniak e Hertzfeld, e la sua aiutante Joanna, che richiamano continuamente il protagonista al proprio dovere morale col mondo, al senso di appartenenza alla realtà, costringendolo a osservare, ripensare, rimodulare il proprio pensiero, ogni volta riaggiornando, migliorando e implementando l'algoritmo personale.
Lo stesso disegno a computer che Lisa bambina disegna durante il loro primo incontro (una linea larga mezzo centimetro, tracciata con la tastiera di un rudimentale Mac), lo si ritrova poi, nel passato, in una pennellata di Picasso, intravista in una di quelle celebri e terrificanti video-presentazioni delle convention californiane che hanno reso famosa la Apple, e nel futuro in un segno primario da cui Jobs sembra generare ogni sua creazione: una linea primordiale da cui partire per disegnare la propria immagine, la propria purezza interiore.
Ma il personaggio di Lisa, vista a cinque, nove e poi diciannove anni, è per il film una sorta di rapporto di minoranza, l’errore che genera il cambiamento. È il bug che spezza la narrazione, quell'andamento ripetitivo e ossessivo con cui Sorkin e Boyle riformulano l’idea stessa di narrazione classica, quella sì meccanica e in grado di rigenerarsi di continuo. Ripetere sulla differenza, si diceva. Ma anche ripetere per risolvere. Nel continuo alternarsi di campi e controcampi di cui il cinema di Sorkin è inevitabilmente fatto, Steve Jobs riafferma così, come si sarebbe detto un tempo, la tipica oscillazione hollywoodiana fra l’ossessione della mancanza (e a Steve Jobs manca ogni cosa, a cominciare dall’amore che potrebbe avere da Joanna...) e l’inevitabile moltiplicazione della differenza, affinché il mondo vada avanti e si evolva.
Nelle rime, nelle sostituzioni e nelle rotture generate dal riapparire degli stessi personaggi e degli stessi argomento, come in un sogno o in un racconto morale, Steve Jobs non fa altro che mettere a nudo la propria struttura e la propria costruzione inevitabilmente programmatica. Al tempo stesso, però, in un ideale controcampo, svela anche la natura paradossalmente narrativa del lavoro informatico, così meccanico e rigido, eppure così creativo e spirituale. Un dialogo fra narrazione e calcolo che, in definitiva, ribadisce un'altra volta ancora, dopo Anderson, lo scacco e insieme il trionfo della metodica, pratica e calcolatrice mente americana nel suo tentativo inesausto di dare senso al tempo e alla realtà, al loro disordine e al loro progredire.
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