Uno sparo nei boschi nella Bosnia, ancora Jugoslava, strappa un superbo esemplare di lupo alla sua vita e al bambino che aveva svezzato insieme al suo branco. Insieme all'animale viene così caricato su un fuoristrada anche il piccolo, a cui viene affibbiato dalle autorità il nome di Haris Puchke (Puchiche, semplicemente "ragazzino", in alcune lingue slave), e che presto viene spedito in una sorta di orfanotrofio in Serbia.
Ad altezza di lupo (e di bambino) si vedono solo, in inquadrature dal taglio orizzontale, gambe e scarpe di quegli esseri che lo accerchiano e che, senza alcuna consapevolezza da parte sua, si stanno chiedendo che cosa fare di lui, a cui esami e test scientifici non danno nessuna chance di superamento della condizione selvatica.
Lo sguardo della macchina da presa si solleva, però, gradualmente, prima in maniera obliqua, a marcare la diffidenza e lo stupore di Puchiche, fino a condividere la posizione retta conquistata a fatica dal refrattario ragazzo-lupo.
Perlustrazione del territorio attraverso l'olfatto, movimenti a scatti dettati dalla paura, posizioni fetali e silenzio rotto solo da grugniti, riescono a essere scalzati solo in parte dai modi bruschi di un pur sensibile insegnante. Una biglia che scivola silenziosa sul pavimento, il gioco più semplice, permette invece ad Haris una sorta di comunicazione, appunto non verbale, con un suo simile poco più grande di lui, Zika, che lo "ammaestrerà", un po' come si fa con i cagnolini, un po' come succede con gli amici più giovani di noi, un po' come fa il piccolo principe di Saint-Exupéry con la sua volpe.
L'educazione all'umanità di Puchiche verrà completata, paradossalmente eppure realisticamente, quando la Bosnia, ormai in guerra in quell'atroce conflitto che all'inizio degli anni Novanta ha massacrato su ogni fronte, si ricorderà di lui perché potenziale soldato. Sarà allora che, di nuovo in mezzo ai boschi, e al suono assordante di un ultimo sparo (sul piano sonoro, l'orecchio dalla sensibilità animale del ragazzino era già stato ferito dallo sparo con cui significativamente si era aperto il film e dai suoni della vorticosa città di notte, esperita insieme a due compagni), il ragazzo forse deciderà chi vuole essere, rotolando fra le foglie, come un lupo, come la Mouchette di Bresson verso il fiume, o semplicemente come un bambino che gioca.
È un apologo allegorico di rara sobrietà e scevro da pietismi e ricatti morali, questa opera prima delicata, implacabile e ferocemente profonda, pura nel proprio specifico filmico, vincitrice del Premio del pubblico alla Settimana della Critica e del premio FIPRESCI alla Mostra del Cinema di Venezia 2014, in cui silenzio, luce e ombra sono usati come potenti strumenti narrativi, e la struttura perfettamente circolare si sofferma su dettagli crudamente poetici e simbolici come sono le scarpe: guardate con diffidenza, rifiutate inizialmente perché imprigionano la sensibilità tattile dei piedi-zampe, accompagnano l'alzarsi in piedi del ragazzo selvaggio, identificano l'amico perduto di cui trattenere il calore, sono riparate dal lavoro come aiutante calzolaio, vengono sostituite da anfibi di soldati di fronti avversari eppure tutti uguali agli occhi di un bambino che scopre di essere bosniaco - che cosa vorrà poi dire? - solo da un insulto etnico di un coetaneo. Scivola così spontaneamente nella storia, ispirata a fatti reali, la crudeltà di un conflitto poco raccontato in pellicola.
I riferimenti dichiarati dal giovane regista Vuk Ršumovic sono Padre padrone dei Taviani e Il ragazzo selvaggio di Truffaut, insieme ad altri film del regista francese: "le gambe senza volto" delle donne di Truffaut segnano l'inquadratura delle due ragazzine dal fondo di un sottoscala nei primi incontri di Puchiche con la femminilità, ma qui è lo sguardo da lupo di Haris a raccontare il proprio mondo, in cui ogni persona che gli si trova accanto, soprattutto i ragazzi dell'orfanotrofio, vive di brevi e intensi assoli, difficili da dimenticare, per la dolorosa, essenziale e umanissima recitazione; sono gli sguardi feriti dei ragazzi dell'ex Jugoslavia.
Nella primavera del 1988, fra le montagne della Bosnia, viene ritrovato un bambino cresciuto fra i lupi. Gli viene dato il nome di Haris e viene inviato in Serbia, all’orfanotrofio di Belgrado, dove è affidato alle cure di Ilke.