Joel Coen

Macbeth

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Com’è noto – ne parlò a lungo nell’intervista di Bogdanovich – Orson Welles girò il suo Macbeth (anno 1948) in soli 23 giorni («Perché non sono riuscito a trovare i soldi per farlo in 24»), con un budget striminzito messogli a disposizione dalla Republic (che di norma produceva solo western), rispettando la teatralità dell’opera con lunghi piani sequenza, girando una sola scena di massa («… una ripresa in cui tutte le forze di Macduff assaltano il castello. Dà un vivissimo senso d’urgenza, perché in realtà avevamo appena dato il segnale della pausa di mezzogiorno, e tutte quelle comparse correvano a mangiare») e rimpiangendo tutta la vita, anche dopo aver realizzato Otello Falstaff, di non aver mai avuto la possibilità di adattare Shakespeare come si deve («Mi piacerebbe tantissimo rifare Macbeth con tanti tanti soldini di Hugh Hefner, come ha fatto Polanski. E a chi non piacerebbe?»). Il risultato fu un’opera fortemente stilizzata, immersa in un mondo di nebbie e ombre, che del testo shakespeariano metteva in risalto lo scontro fra antico e moderno, tra le sacerdotesse di un’era antica (le streghe) e i convertiti a una nuova religione a cui affidarsi per emanciparsi dalla barbarie. Il Macbeth di Welles non sembra nemmeno appartenere al cinema hollywoodiano, a cui in realtà doveva la sua stessa natura: è un’operazione unica e solitaria, una tragedia dell’incertezza, più che dell’ambizione.

Era inevitabile, insomma, che Joel Coen, per la prima prova senza il fratello Ethan, pensasse a Welles per il suo adattamento del Macbeth: per il senso d’isolamento («Fratello, dove sei?»), per l’inevitabile adesione ai modi in cui oggi si fanno e si vedono i film, girati in digitale e pensati per una fruizione in streaming, per l’evidente estraneità a un sistema di consumo consolidato (in soldoni: a chi può interessare su AppleTv un film come questo?).

Il Macbeth di Joel Coen (girato anch’esso in poco tempo – non 21, ma 36 giorni – e con mezzi sostanzialmente ridotti) è come immerso nel vuoto, un film che viene dal nulla, che forse non porta a nulla, il cui stile – geometrico, astratto, con un bianco e nero ancora più stilizzato di quello di Welles (la fotografia è di Bruno Delbonnel – dimostra l’aridità e l’assoluta mancanza di profondità dell’alta definizione.

Che la Scozia di questo Macbeth sia uno spazio di trasparenze, nebbie, luci, ombre e scenografie essenziali è quasi scontato: la dimensione teatrale è incastonata nel testo; quelle parole, quelle vicende, quel mondo quasi preistorico rifuggono la brutalità caotica dell’adattamento storico (Polanski provò a sfatare tale impostazione, ma ci riuscì solo nei momenti in cui spingeva sul pedale del realismo sporco e violentissimo). Joel Coen usa la stilizzazione per portare la tragedia di Shakespeare nel mondo del sogno, o meglio ancora nella solitudine di un sognatore: il suo Macbeth (interpretato da Denzel Washigton, anche qui probabilmente in omaggio a Welles, che ad Harlem portò in scena il testo con una compagnia di interpreti afroamericani), più che un ambizioso, è un illuso, un visionario deluso dalle proprie visioni. È difficile non pensare che per questo sia una figura modernissima, quasi futuribile. 

Le riprese frontali in formato 1,33:1, il chiarore nebbioso da cui sbucano figure perfettamente centrate; le azioni che si svolgono a poco distanza l’una dall’altra, con personaggi che osservano, spiano, ascoltano; le ombre che fanno intendere i fatti sono, sì, gli elementi di una messinscena da teatro, dove il palcoscenico si fa sintesi e reintepretazione del mondo, ma attraverso la freddezza del digitale acquisiscono anche una moderna estetica cinematografica: una bellezza sintetica, un artificio della composizione, un’illusione liquida, per cui le contorsioni della strega una e trina (la straordinaria Kathryn Hunter) sono così plastiche da diventare spaventose e le parole del testo, mantenute alla lettera, sono in realtà recitate in modo colloquiale, come linee di dialogo, risultando al tempo stesso opprimenti e mai sentite prima (quando Frances McDormand/Lady Macbeth invoca Dio di toglierle il sesso lo fa con una violenza che mette i brividi: «unsex me here, and fill me from the crown to the toe top-full of direst cruelty»).

Joel Coen si autocita (il bianco di Fargo, le foglie secche di Crocevia della morte, il cerchione dell’auto di L’uomo che non c’era, che qui diventa la corona divelta dal capo di Macbeth) e offre senza nasconderla troppo la lettura per cui, a ben guardare, la tragedia dell’ambizione e dell’errore è alla base del cinema suo e del fratello, dei loro personaggi falliti e fallibili, non più, o non solo, figli della tradizione ebraica, ma ora anche di quella europea. La consapevolezza è però troppa, il rimando così evidente da risultare forzato e, ammettiamolo, sostanzialmente inutile.

Che il cinema dei Coen sia nichilista, in fondo lo sappiamo da sempre; che i loro film siano vuoti e poggino sul nulla abbiamo imparato a capirlo tanti anni fa. La questione è però sempre la stessa: la questione è accettare il paradosso, l’assurdo, l’arbitrarietà (la solitudine!) di ogni linguaggio, per imparare a starci dentro. E questo film – freddo, ostile, depurato – è un modo di adeguarsi e a suo modo di esistere ancora. Un film del presente, chissà quanto pure lui futuribile.


 

Macbeth
Usa, 2021, 105'
Titolo originale:
The Tragedy of Macbeth
Regia:
Joel Coen
Sceneggiatura:
Joel Coen
Fotografia:
Bruno Delbonnel
Montaggio:
Joel Coen (come Reginald Jaynes), Lucian Johnston
Musica:
Carter Burwell
Cast:
Denzel Washington, Frances McDormand, Alex Hassell, Bertie Carvel, Brendan Gleeson, Corey Hawkins, Harry Melling, Miles Anderson, Matt Helm.
Produzione:
A24, IAC Films
Distribuzione:
AppleTv

Denzel Washington e Frances McDormand sono i protagonisti dell’adattamento cinematografico, feroce e audace, di Joel Coen, una storia di omicidio, follia, ambizione e astuzia furiosa.

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