Darren Aronofsky non è mai stato un regista che ama andare troppo per il sottile. Il suo è un cinema fisico, fatto di carne e mutazioni, in cui l’essere umano è spinto a mettere alla prova i propri limiti, a lottare contro ossessioni e fantasmi; un cinema che pone al centro il corpo in tutte le sue forme e i suoi stati emotivi e carnali; un cinema, ancora, che vuole portare lo spettatore in viaggio con i suoi protagonisti, coinvolgerlo in un’esperienza sensoriale fra realtà e immaginazione, in cui ogni elemento è spinto all’estremo, quasi a grattare la superficie delle cose fino a vederne il sangue.
mother!, in tal senso, è il più diretto ed esplicito dei film di Aronofsky. Tutto ciò che c’è da sapere, tutto ciò che il film ha da dire, viene fondamentalmente riassunto nel primo minuto: una donna che brucia tra le fiamme, le rovine di una casa devastata da un incendio, un rumore assordante; poi lo sguardo sicuro di un uomo e una pietra preziosa dal cuore pulsate che riporta (magicamente) vita e ordine nel (proprio) mondo. Un uomo, una donna e un mondo in costante evoluzione: un sogno delirante, una visione distorta, uno stato mentale in cerca di equilibrio.
Dopo l’incipit arriva il titolo: mother!, con la “m” minuscola (almeno nell'edizione originale) e un punto esclamativo in coda; una rinuncia, quella della maiuscola iniziale, che suggerisce come la “madre” non debba essere il punto da cui iniziare a leggere e guardare il film, ma il complemento oggetto di un discorso, non il suo fulcro. Infine, un punto esclamativo tracciato in maniera netta che lascia invece presagire un discorso urlato, per nulla sottile.
Qual è dunque il centro, o meglio il cuore di mother!? La risposta sta proprio negli elementi di base del film: una donna, un uomo, una casa. Si tratta della costruzione visiva di un legame, della trasposizione di un atto creativo. Una donna e un uomo che vivono isolati da ogni possibile contatto umano e una casa viva e pulsante, che percepisce l’andamento del legame della coppia e che si trasforma ed evolve. Uno scenario magmatico e distorto che subisce le influenze del mondo esterno, degli umori e dei pensieri dei suoi inquilini, e diventa quindi il contenitore di tutti gli elementi del racconto, lo specchio di un inconscio altrimenti irrappresentabile. Le mutazioni, il decadimento del corpo, la carne e il sangue non appartengono ai personaggi, ma al teatro in cui si muovono: uno stato mentale in continua evoluzione che restituisce un’idea di irrealtà in perenne movimento.
C’è un rapporto al centro di Madre!. Un rapporto che per essere rappresentato ha bisogno di un contenitore che si faccia da interprete, che si presti a diventare palcoscenico per la nascita di un amore e l’arrivo dell’Apocalisse. Illeggibile, rarefatto e sfuggente lo scenario del film va considerato al di là di una logica razionale, come un’esplosione visiva da cui lasciarsi travolgere, un bombardamento di suggestioni che possono condurre il racconto ovunque.
Nell’intavolare un discorso tutto sommato semplice e diretto, nel lavorare per allegorie e metafore apparentemente rozze e banali, Aronofsky crea un’esperienza visiva estrema ed eccessiva capace di adattarsi alle infinite interpretazioni. Parabola biblica, gestazione di un’opera creativa, cannibalizzazione di un’idea o, semplicemente, storia d’amore e dipendenza tra un uomo e una donna… Succede, quando ci si affida a un regista abituato a non andarci troppo per il sottile, che perdersi nel viaggio sia più intrigante che cercare una, e una sola, risposta nel punto d’arrivo.
Durante gli ultimi anni della vita di Bruce Chatwin il regista tedesco Werner Herzog ha collaborato con lo scrittore inglese ad alcuni progetti e fra i due è nata un’amicizia istintiva e profonda. In Nomad Herzog ripercorre le tracce dei pellegrinaggi che Chatwin ha compiuto alla ricerca dell’anima del mondo, attraversando continenti con l’inseparabile zaino che ora appartiene a Herzog, e che diventa il terzo protagonista del film.