Manchester by the Sea è un film idraulicamente misterioso, quasi magico. Non certo perché il suo protagonista cerca nel fondo di un tubo da sostituire o in uno scarico da sgorgare la possibilità di sopravvivere a ciò cui non si può davvero sopravvivere, ma perché il film si offre allo spettatore come un bacino in continuo riempimento emotivo e drammatico che, nonostante la mancanza di una valvola del troppo pieno, riesce – magicamente - a non strabordare. Quella che travolge i personaggi del film è infatti una tale alluvione di tragedie che sembrerebbe quasi un soggetto da romanzo d’appendice e invece diventa – magicamente - un asciuttissimo dramma esistenziale così delicato e feroce, nel tocco profondamente umano del suo regista, da lasciare disarmati.
Non è facile dire con esattezza quale sia l’alchimia del film di Kenneth Lonergan, eppure riesce a riempirsi (e a riempire lo spettatore) di tali e tante emozioni che, non si capisce bene come, riescono a restare in equilibrio come galleggiando su un’infinitesimale superficie la cui tensione è il risultato di una misteriosa equazione. Perfino i pomposi archi della colonna sonora alla fine, forse grazie alla compensazione dei molti vuoti sonori del film, riescono a trovare la loro dimensione. Complici i toni cromatici ed emotivi dei paesaggi dell’Essex, l’aria sferzante, l’acqua della baia, la neve che ricopre Boston o forse semplicemente grazie alla grande coerenza e alla classicità della forma, tutto regge. Regge la musica, reggono i flashback che potrebbero essere stucchevoli e pleonastici e invece mettono in profondità il racconto, regge la curiosa disperata “comicità” di alcuni momenti (le ruote della barella che continuano a cadere nel momento più drammatico del film, la reazione del giovane Patrick di fronte al cadavere del padre e, per converso, quella che avrà più tardi davanti al freezer di casa); regge con forza, anzi sostiene tutto, lo svicolare dai facili sentimentalismi in favore della complessità dei sentimenti. Come quelli di un adolescente che, con una madre assente e un padre che se n’è andato troppo presto, convoglia le sue forze emotive nel tenere in piedi due relazioni amorose contemporaneamente. Perché le emozioni, il dolore come l’amore, sono in fondo indescrivibili.
Ed è proprio qui che Kenneth Lonergan riesce al meglio, sapendo fermarsi sempre al momento giusto, lasciando che gli spazi e i silenzi, gli sguardi distolti e i sorrisi accennati, la mani appoggiate e i pugni alzati, le esplosioni di rabbia e le lacrime trattenute si conquistino tutto, semplicemente essendoci. Senza bisogno di grandi spiegazioni e con l’assoluto rispetto proprio per la non definibilità delle emozioni, ma anche per l’impossibilità, in fondo, di accettarle veramente, il racconto avanza affidato a un Casey Affleck oggettivamente impeccabile. Questo loner da grande cinema classico non sarebbe narrativamente un personaggio così intenso però se non fosse circondato da una serie di figure più o meno secondarie che veicolano le numerose aperture tematiche del film (le relazioni familiari, la genitorialità, l’adolescenza ma anche la vita in una piccola comunità di provincia) ma che, soprattutto, dicono, al posto del silenzioso Lee Chandler, molte delle cose che si nascondono nei suoi silenzi. Le dicono sottovoce, le sussurrano tra le righe, le suggeriscono senza volerlo oppure le dicono e basta perché la vita è così e le relazioni sono così, parlano di noi e di chi ci sta intorno. E riescono a farlo perché ci sono grandi attori capaci di rendere cruciale perfino un minuscolo ruolo (come i due poliziotti nei pochi minuti dell’interrogatorio di Lee o come la madre della ragazzina alle prese con un disperato tentativo di small talk) e perché una sceneggiatura pulita e lucida sostiene le loro parole e i fatti di cui sono protagonisti.
Cosa sarebbe (e cosa sarà) Lee senza il suo corpulento fratello maggiore che si butta stanco su una poltrona nuova, cercando a qualunque costo di aerare il più asfittico dei seminterrati? Cosa sarebbe (e cosa sarà) Lee senza la moglie Randi, dalla quale non riesce a star lontano nemmeno minacciato dai temibili bacilli di una brutta influenza? Cosa sarebbe Lee senza (o cosa potrebbe essere con) Patrick, quel nipote al quale sfugge continuamente per non accettare che la vita va avanti? Interrogativi che non hanno vere e proprie risposte; non le hanno nella vita e non gliele cerca di dare Lonergan, per fortuna. La vita d’altronde è proprio così con le emozioni in accumulo continuo, quelle impreviste come quelle ricercate, senza la possibilità di spiegarle né di sapere realmente se sarà possibile sopravvivere loro; esiziali o salvifiche che siano comunque così, galleggianti tra la realtà di un silenzio e l’ipotesi di un abbraccio.
La storia dei Chandler, una famiglia della classe operaia del Massachusetts. Dopo la morte improvvisa del fratello maggiore Joe (Kyle Chandler), Lee (Casey Affleck) diventa il tutore legale del nipote (Lucas Hedges). Tornando da Boston al Manchester, Lee è costretto però ad affrontare il tragico passato che lo ha separato da sua moglie Randi (Michelle Williams) e dal paese in cui è nato e cresciuto.