Si fa presto a parlare di “documentarismo”, di “realismo” sempre un po' “neo”, forse perfino di “verismo”, con l'immancabile “pedinamento”, rimarcando l'imprescindibile piano sequenza. Quanti ne abbiamo visti di film del genere, che finiscono impantanati nelle loro nobili intenzioni, imbalsamati dall'idea, l'etica estetica che soffoca la realtà?
E invece a Manuel questo non succede. Nel film di Dario Albertini – esordio nella fiction, dopo vari documentari, e la musica, e la fotografia, e i videoclip – le case popolari non sembrano solo scenografia (a parte un paio di inquadrature ad effetto, da cui scivola subito via con pudore), i ragazzi non si sforzano di essere naturali(stici), il protagonista “pedinato” non è una vittima della società da esporre all'indignazione o alla considerazione commossa dello spettatore colto (possibilmente amante del minimalismo). Manuel-Andrea Lattanzi - diciottenne in uscita da una casa famiglia, finalmente (?) libero dalle regole, la protezione, le raccomandazioni di educatori, preti, psicologi, alle prese con una madre in carcere da salvare, una casa da ripulire, una vita (anzi due) da ricostruire – porta con sé e su di sé una verità che emoziona, una vita interiore che ribolle in superficie, una ruvida autentica eroica fragilità, che di fronte alle difficoltà diventa una forza umanissima e appassionante.
C'entrano anche i piani sequenza, certamente, l'ostinazione con cui Albertini rifiuta la dialettica campo-controcampo, perché grazie al suo protagonista in stato di grazia, ai dialoghi che suonano veri, alla tensione creata dalla mancanza di stacchi e sospiri, ogni incontro diventa una piccola rivelazione. C'entra la capacità di creare “ambienti musicali”, suoni e campionamenti che forniscono alle immagini un doppio fondo misterioso. C'entra la consapevolezza con cui tira in ballo le proprie fonti di ispirazioni, come quando i Baci rubati aiutano il protagonista a percepire la propria unicità. Anche se poi, a ben guardare, l'incontro con l'attrice-volontaria che recita Truffaut ha qualcosa di posticcio; la musica, quando vuole "fare la scena", ci sveglia dall'incantesimo della “realtà più vera del vero”; gli incontri in cui la mdp si muove, come un pendolo, dentro il dialogo, risultano fin troppo costruiti e consapevoli.
E allora la bellezza e la forza di questo film forse stanno da un'altra parte. Nel vuoto delle scene più eteree, in cui si respira la verità e la complessità di Manuel, fuori da qualsiasi urgenza narrativa (la trama è minima, il figlio deve convincere "la società" di poter accogliere e aiutare sua madre agli arresti domiciliari, invece che lasciarla in galera). Nel pieno di quelle sequenze potenti in cui collassa la banalità del reale, la mdp sta semplicemente e intensamente a guardare e le emozioni implodono, emergendo dentro uno sguardo, mani che si toccano, una frase che esce più giusta e più onesta delle altre (nel dialogo iniziale con l'educatore o quello con l'assistente sociale, nell'addio alla casa famiglia o nell'incontro con la madre...).
Il film è nato quando Albertini ha deciso di rinunciare al Manuel vero, a cui si è ispirato, che aveva incontrato girando un documentario, La repubblica dei ragazzi, dedicato a una comunità di minori in difficoltà, privi di un sostegno famigliare. Ne ha dovuto creare uno "nuovo", forse anche più “vero”, insieme ad Andrea Lattanzi, con cui ha fatto un lavoro straordinario. Col suo viso affilato e lo sguardo intenso, l'orgoglio e la paura, timido e autentico, gentile e ribelle, Manuel-Andrea-Dario riesce a raccontare tutto un mondo (che a dirlo si scadrebbe nella retorica della decadenza urbana, nel folklore del disagio sociale) in pochi gesti e parole. Accompagnandoci per mano - ma senza darci eccessiva importanza, sopportando appena la nostra invasiva presenza - verso una qualche forma di poesia, grazia, bellezza, che troviamo lungo il desolato litorale ostiense, o in un abbraccio silenzioso dietro le sbarre, o nell'attacco di panico che libera la paura soffocata, o dentro il mutismo di uno di quegli ultimi che si incontrano nelle periferie del mondo, quando non ci si volta dall'altra parte.
Un ragazzo di diciott'anni (Manuel) esce da un istituto per minori privi di sostegno famigliare e per la prima volta assapora il gusto dolce amaro della libertà.
Una madre chiusa in carcere che vorrebbe tanto tornare indietro e ricominciare. Manuel viene posto di fronte a una scelta molto difficile: se accetta di prendere in carico la madre, assumendosi una responsabilità enorme, allora lei potrà ottenere gli arresti domiciliari.