Subito si impone il tema della lotta tra l’oscurità e la luce. Il protagonista emerge dal buio, conquista il suo posto ai nostri occhi facendosi fisicamente portatore di una dialettica che abita nel cuore della realtà di cui egli è centro, il punto di attrazione. Tentazioni caravaggesche, ma soltanto per un attimo, una breve sottolineatura; poi la materia narrativa riconquista la sua urgenza, preme e si apre la strada come il vitellino che Domenico “Menocchio” Scandella è stato chiamato a far nascere. Quest’uomo è un tramite, un conduttore: per le sue mani sapienti passano la conoscenza, l’energia e la determinazione messe con semplicità al servizio del ciclo naturale della vita e sulle quali può fare affidamento la comunità di contadini e montanari di Montereale.
Dopo la nascita della creatura, lo stacco sull’interrogatorio è secco, brutale. Ci deve essere dietro una grande inquietudine se la Controriforma ha pensato di mandare in questo luogo perduto tra i boschi friulani i suoi inquisitori per stanare l’eresia e ridurla al silenzio. Motivo religioso e politico: colpire il cuore profondo della Repubblica Veneta, crocevia di mercanti ma anche di pensiero libero, in aperta contrapposizione all’autorità assoluta di Santa Romana Chiesa. E la componente politica si manifesta nelle parole di uno degli inquisitori quando ammonisce di non trasformare Menocchio in un martire. Menocchio non è un editore ribelle, un contrabbandiere di libri proibiti dall’Indice; lo spazio in cui si muove non è quello della cultura cittadina cosmopolita; ma è una «mente forte» che ha saputo generare intorno a sé una cellula eretica circoscritta quanto vitale, fondata sulla connessione profonda tra eresie medievali, anabattismo e la visionarietà soggettiva del suo “pastore” («è lui il vero parroco!») generatrice di una cosmogonia e di una storia della salvezza del tutto personali.
E la comunità prende corpo per rapidi quanto significativi tratti orchestrati dalla regia e dalla sceneggiatura (con Enrico Vecchi) di Alberto Fasulo, mentre Menocchio sta rinchiuso in una cella sotterranea, nel ventre della terra, da cui viene tratto soltanto per essere sottoposto agli interrogatori della commissione di indagine. La famiglia, i componenti del villaggio ascoltati come testimoni, l’infido parroco che lo ha denunciato spinto probabilmente da urgenze non propriamente religiose… Un altro prete (amico d’infanzia dell’accusato) dai contorni dapprima sfumati, che poi si definisce meglio come attivamente partecipe dell’eresia. Il silenzioso secondino la cui presenza non è poi così esente da empatia verso l’inquisito. Menocchio è sicuro di sé, (“arrogante” viene definito) ma di una forza che sconfina nell’ingenuità, anticamera della condanna irrimediabile. Il “prete” amico e complice si muove con più scaltrezza, negando ma anche concedendo di fronte alle richieste dei commissari: i paesani ne fanno le spese, forzati in forma di penitenza collettiva a iniziare la costruzione di una chiesa. Ed è sempre lui a spingere Menocchio alla scelta della dissimulazione, della finta abiura per avere salva la vita e con essa la possibilità di continuare a essere vivo e se stesso. Una scelta tutt’altro che facile. Menocchio decide di praticarla soltanto dopo il processo e dopo una notte popolata di mostri, al termine della quale si assoggetta alla lettura di quella ritrattazione che gli concederà altri quindici anni di vita, prima di un ulteriore e definitivo processo, come la Storia ci dice.
Fasulo si muove tra oscurità e luce alla ricerca inesausta di una chiave che sia in grado di aprire il passaggio stretto fra realtà materiale, ideologia, libertà di pensiero. I volti diventano protagonisti di questa interrogazione: volti filmati come paesaggi, da distanza ravvicinata, per cogliervi nella materialità dei dettagli il sintomo del mistero che nascondono e che infine resterà tale perché, in ultima analisi, è proprio nella concretezza opaca della materia l’origine e la fine di tutto. La sua rielaborazione in immagine sembra alludere a una possibile via d’uscita, a una “redenzione” (l’unica possibile, forse), ma anche in questa direzione il rischio è alto: è ancora Menocchio a dirlo, nel suo discorso pronunciato durante il processo, quando richiama l’attenzione dei suoi giudici sulla funzione ideologica di quelle immagini di vescovi e papi che ricoprono le pareti della sala in cui si svolge l’udienza e che lui ha osservato con attenzione in attesa che il procedimento avesse inizio.
Le immagini – dunque anche quelle cinematografiche – non sono necessariamente strumenti di verità, di comprensione del mondo né tanto meno sono innocenti. Questo montanaro disubbidiente, ribelle, indomito fino all’ultima dissolvenza che non chiude ma sospende, rivendica in quelle poche parole con cui parla di papi rivestiti e colorati la sua indipendenza anche da qualsivoglia tentativo di ridurlo a oggetto, rappresentazione, icona. Dietro a ogni immagine sta in agguato, sempre, il culto della personalità come strumento di potere. Al di là delle istanze pauperistiche conclamate («Dov’è il Dio dei poveri? Vuole i poveri, Dio?»), l’autentico cuore politico di Menocchio sta forse proprio in questa rivendicazione.
Italia. Fine Cinquecento. La Chiesa Cattolica Romana, sentendosi minacciata nella sua egemonia dalla Riforma Protestante, sferra la prima sistematica guerra ideologica di uno Stato per il controllo totale delle coscienze. Il nuovo confessionale, disegnato proprio in questi anni, si trasforma da luogo di consolazione delle anime a tribunale della mente. Ascoltare, spiare e denunciare il prossimo diventano pratiche obbligatorie; pena: la scomunica, il carcere o il rogo. Menocchio, vecchio e cocciuto mugnaio autodidatta di un piccolo villaggio sperduto fra i monti del Friuli, decide di ribellarsi. Ricercato per eresia, non dà ascolto alle suppliche di amici e famigliari e, invece di fuggire o patteggiare, affronta il processo. Non è solo stanco di soprusi, abusi, tasse, ingiustizie. In quanto uomo, Menocchio è genuinamente convinto di essere uguale ai vescovi, agli inquisitori e persino al Papa, tanto che nel suo intimo spera, sente e crede di poterli riconvertire a un ideale di povertà e amore.