Ecco la differenza fra vintage e Grand Guignol d’autore. Cioè fra un James Wan qualunque, che ha ormai reso sistema un immaginario horror traslucido (depotenziandolo) e un regista che al contrario apre il suo film tirando una tenda («Let’s begin»), sceglie il set della casa – chiuso, perimetrato, limitato – quale palcoscenico finzionale ed è in grado di formulare un bric-à-brac idealmente artigianale alla Herschell Gordon Lewis con ambizioni nientemeno che spielberghiane.
Tanto che Oujia - L’origine del male sgombera subito il campo sia dalla presenza imbarazzante di Ouija (2014), di cui sarebbe un prequel (come dimostra un cliffhanger abbastanza inutile dopo i titoli di coda), sia dall’impressione più immediata e superficiale, quella di un ennesimo horror alla The Conjuring. Finalmente Mike Flanagan torna a Oculus - Il riflesso del male (2013), talvolta anche con evidenza: in uno show che usa il trucco quale disegno architettonico (si dice infatti che l’edificio in cui si svolgono gli avvenimenti ha “good bones”, delle buone ossa) e contemporaneamente lusinga misericordiosa (è ciò che la protagonista, maga ciarlatana, si convince di offrire ai suoi clienti: un po’ di carità), la sensazione più forte, quella conclusiva e permanente, è che lo sguardo, l’udito e la voce siano usati alla maniera di un microscopio, alla ricerca di una realtà diversa e invisibile che forse sarebbe bene non vedere e non sentire.
Allora, d’accordo, la Storia come amministratrice di un passato mostruoso capace di rigenerarsi di continuo; o i legami familiari quali corde da spezzare (con tutto ciò che comporta); o l’inquietudine di un’epoca (il tempo della vicenda è il 1967) che volge al termine e che nemmeno la forza matriarcale – le protagoniste sono una madre vedova, la figlia adolescente e la figlia minore – riesce a elaborare e a superare, affacciandosi su una nuova era ancor più irrequieta e traumatica (gli anni Settanta): però di Ouija - L’origine del male convincono di più la sua vista ingannata e distorta (dall’indicatore mobile della tavoletta medianica), la sua bocca deformata (dall’orrore), le sue orecchie in cui vengono riversate parole malvagie, col risultato di costruire un’orditura davvero salda ed efficace, sulla quale svolgere una fantasmagoria, “sim sala bim” dell’orrore, un abito di morte da indossare e da mostrare in pubblico.
L’effetto è manifesto eppure irresistibile, come appunto in una rappresentazione grandguignolesca. Con un valore aggiunto: perché in un horror dove se dio vuole c’è una regia che sa fare un primo piano (con un paio di pan-focus straordinari) e che usa il centro dell’inquadratura in 1.85 con un’idea non peregrina di rilevanza focale e problematica rispetto al contesto; e dove l’omaggio cinefilo non è mai né ingombrante né dimostrativo (uno su tutti: c’è un’improvvisa citazione iconica di L’esorcista di grande intelligenza); e dove, ancora, la paura è un fenomeno non meccanico, non automatico, bensì sottile e perfino subdolo (e l’uso del rumore e della musica dei Newton Brothers è a tal proposito molto abile), e quindi più genuinamente spaventoso; e dove inoltre una volta tanto c’è un lavoro sugli interpreti, e sui loro volti, e su ciò che anche soltanto da fermi significano (ah, la direzione degli attori, questa bestia sempre più rara), ecco, in un prodotto di genere come questo, garantito dalla Blumhouse e da Michael Bay, in cui l’artificio “teatrale” ritrova la sua ragione forse più elementare ma senza dubbio più giusta, c’è addirittura il racconto di una formazione al male che è maturazione e epifania, per cui l’amore è un prodigio vivo e spielberghianamente chiaro, tuttavia avvicinabile soltanto con la morte. Lasciare ogni speranza, insomma, se si decide di entrare (in questo teatro), di giocare (a questo gioco spiritico), di crescere, di lottare, di amare.
Los Angeles, 1967. Una madre vedova e le sue due figlie introducono un nuovo trucco alle loro consuete frodi spiritiche, finendo per attirare un vero spirito maligno Quando la figlia più giovane viene posseduta dall'entità, la famiglia dovrà fare i conti con paure inimmaginabili per poterla salvare.