Grandi robot e mostri grandissimi: cosa volete più di così? E la recensione potrebbe finire qui. Perché Pacific Rim: la rivolta non ha molto altro da dire.
Godetevi le scene d'azione, mai deludenti: quei giganteschi giocattoli di ferro della nostra infanzia, coi nomi improbabili e i segni del tempo sulle superfici cromate, quasi commoventi nel loro agile impaccio, modernariato di lusso; quei mastodontici mostri fanta-preistorici, Alien troppo cresciuti, che si fanno beffe della memoria atomica di Godzilla sbriciolando i grattacieli di Tokyo e provando la scalata al sacro monte Fuji.
Scelta forse inevitabile, quella di abbandonare l'ambientazione cupa, acquatica, audace, fotografata da Guillermo Navarro per quel matacchione di Guillermo Del Toro, che quando non realizza abili film a tavolino, si concede escursioni un po' matte, magnificamente imperfette, come quella del capostipite (Pacific Rim ci era piaciuto assai). Qui invece arriviamo allo scontro in piena luce, dentro una performance che è soprattutto grafica e cinematica, a compimento di una trascurabile storia che parrebbe frutto di una nostalgia trentennale, se non fosse che l'episodio precedente risale a cinque anni fa.
Siamo già all'omaggio del piccolo cult, al rifacimento a distanza, non per niente aperto da una ragazzina scatenata (Amara) che passeggia tra i robot-mito nominandoli uno per uno e facendo «oooh!». La accompagna Jake Pentecost, figlio dell'eroe che si è sacrificato per salvare il mondo, l'erede che ha rifiutato la sua storia e il suo talento, ma che è costretto a tornare tra i buoni.
Quindi siamo ancora lì, con gli jaeger (i robot) contro i kaiju (i mostri), dentro un periodo di pace apparente, disturbato dall'arrivo di un esercito di droni che dovrebbero soppiantare i vecchi guardiani. La novità sta in una titanica sfida tra due robot (bella), che finisce in tragedia. Non ci sono passi avanti, invece, rispetto all'interessante invenzione del progenitore, la necessaria unione tra due piloti che devono condividere ricordi ed emozioni per governare lo jaeger, che finsice per coincidere con i loro corpi e le menti connesse.
Ci sono i giovani che si allenano a diventare eroi, tutti opportunamente tipizzati, che devono imparare a percepirsi come una famiglia. Ci sono gli adulti coi loro conflitti irrisolti all'acqua di rose. C'è la cattivona-ona protagonista di una falsa pista narrativa con sorpresina-ina finale. Ma tutto è un nuovo inizio, dagli attori ai temi ai personaggi, dentro una logica che non è più quella del divertimento deltoriano di tendenza, stiloso, pieno di fervente amore per la cultura otaku e per Harryhausen, ma un'operazione commerciale senza troppe pretese, opportunamente stereotipata, in cui le emozioni sono dette più che manifestate. Nulla di scandaloso. Di veramente fastidioso ci sono solo certi effetti da terza media dell'audiovisivo.
Il filo conduttore, ancora una volta, è il riscatto personale. Anche se di personalità ce n'è poca.
Dieci anni dopo la battaglia della breccia, il programma Jeager è diventato l'organo di difesa globale più efficace della storia. Quando i Kaiju attaccano nuovamente la Terra, ancor più evoluti di prima, l'unica speranza di salvezza risiede in Jake Pentecost, figlio del deceduto comandante Stacker, che insieme alla sorella adottiva Mako Mori e ad un nuovo gruppo di piloti e l'aiuto dei dottori Newton e Gottlieb, dovranno pilotare i nuovi Jeager di seconda generazione e impedire l'estinzione del genere umano.