Patagonia, l’esordio nel lungometraggio di Simone Bozzelli dopo video musicali e cortometraggi (J’ador, del 2020, ha vinto il premio SIC@SIC), presentato in concorso a Locarno, è un film crudo, vitale, musicale, pieno di amore e di energia, di tenerezza ma anche di crudeltà, di riferimenti cinefili e di originalità vera, pulsante. E di fuoco, come quello di una Patagonia primigenia e fantasticata. È la storia di Yuri (Andrea Fuorto), un ventenne forse disturbato, che vive e lavora con tre zie che lo accudiscono e viziano ma che lo tengono fuori dal mondo in un piccolo paese dell’Abruzzo, che alla festa di compleanno del cugino conosce un ragazzo, Agostino (Augusto Mario Russi), che fa il clown per i bambini per sbarcare il lunario e passa la vita in un camper, nella libertà più totale. Yuri è affascinato da questo essere che sembra sbarcato da un altro pianeta e decide di seguirlo con la scusa di lavorare per lui alle feste, facendogli da assistente; e questa fascinazione si trasforma in un amore tormentato che lo rende strumento nelle mani dell’altro ma che gli fa anche conoscere la vita e le persone, portandolo a una consapevolezza nuova.
Un percorso, quindi, di formazione, di Yuri quanto di Agostino, che sembra dominare il mondo ma che si scopre nella seconda parte, quando i due arrivano nella comunità dei suoi amici, che vivono al di fuori di ogni convenzione ascoltando musica techno e facendo i rave, molto meno libero di quanto non sembrasse, se non altro per la presenza di un figlio da mantenere. Yuri quindi, da elemento fragile della coppia, sottomesso all’altro in un rapporto vittima – carnefice che è psicologicamente un incastro perfetto, come ha ben mostrato Fassbinder in più di un film (ma il riferimento, qui, è anche al Fellini di La strada), diventa progressivamente la persona più libera delle due, una pagina bianca su cui Agostino ha cercato di scrivere cose che hanno rivelato la loro inconsistenza, e può permettersi di scegliere; non di andarsene come sembra fare nel prefinale, per lasciare colui che l’ha tiranneggiato, ma di restare, perché quelle catene gli sono ormai familiari e perché quella gabbia è la gabbia del suo amore, del loro amore.
Questa riflessione sulle relazioni, su quanto l’amore possa essere “tossico” ma su quanto, allo stesso modo, possa aiutare le persone a conoscersi e a crescere; questa riflessione sui legami ma anche sulla libertà, su cosa significhi, davvero, essere liberi; questa vicenda di scoperta, per Yuri, della sessualità e per entrambi di un modo proprio di stare insieme, diverso da tutti gli altri, sono raccontate in maniera intensa ed efficace: Bozzelli usa il 16mm per avere una grana “sporca” e sta addosso ai propri personaggi, li investiga li tallona li mette a nudo con un coraggio che da tempo non si vedeva sullo schermo, almeno in Italia. Siamo lontani dal buonismo di molto cinema di oggi: qui la brutalità dei sentimenti è mostrata ed è disturbante, come nei film di Bruno Dumont, ma di quei sentimenti e di quei personaggi si vede anche bene la purezza. Emblematico in questo senso il rapporto con gli animali che popolano il film: c’è il serpente che mangia il ratto ma anche il topo che diventa amico dell’uomo, ci sono gli uccelli in gabbia che andranno venduti alle fiere ma anche i cani che, se liberati, restano con il padrone; come fa alla fine Yuri con Agostino. Premi e punizioni, colpa e redenzione; perché l’amore redime, o almeno questo sembra volerci dire il nostro film.
Yuri ha vent’anni e vive con l’anziana zia una vita ovattata nel grembo del piccolo paese abruzzese che è tutto il suo mondo. Ad una festa di compleanno incontra Agostino, animatore girovago e incantatore di bambini, che gli promette l’indipendenza che Yuri non sapeva di stare cercando. Sognando la libertà della Patagonia, i due partono per un viaggio di autodeterminazione che si trasformerà in un delirio di controllo e prigionia.