Un bambino malato di leucemia è ricoverato in ospedale, strappato alla famiglia – papà, mamma e sorellina – e alle abitudini della sua età. Perde capelli, forze, appetito: soffre la solitudine e affronta un’incertezza del futuro troppo pesante per gli anni che ha. Scopre però di avere un potere: il suo fantasma può lasciare il corpo, quando il bimbo si addormenta, per vagare libero per il mondo, per osservare la realtà con altri occhi, per vedersi – letteralmente – dal di fuori. Durante la degenza conosce un poliziotto svagato, in ospedale per una gamba rotta rimediata in un inseguimento, e una giornalista intraprendente. Con loro salverà la città dalle minacce di un gangster con la faccia da pagliaccio cubista, anche mettendo a repentaglio la propria incolumità.
Phantom Boy, opera seconda dei francesi Jean-Loup Felicioli e Alain Gagnol, già autori del bel Un gatto a Parigi, utilizza l’animazione (ostentatamente bidimensionale, orgogliosamente minimale, consapevolmente asimmetrica) per tratteggiare un omaggio al cinema di genere classico, con piccole contaminazioni dall’immaginario contemporaneo dei supereroi, ma soprattutto per disegnare un’esemplare favola sulla malattia, sul coraggio infantile, sulla necessità di abbandonarsi e di abbandonare.
Il piccolo Leo, prigioniero in ospedale, è costretto a crescere in fretta, la sua condizione di malato lo spinge a una fragilità che si scontra con il senso di protezione nei confronti della sorella minore, con l’ansia di rasserenare i genitori che gli appaiono più sfiduciati di lui. La fantasia, l’immaterialità, il potersi, dormendo, liberare del peso terreno del corpo malato sono la sua valvola di sfogo, il solo modo di riconquistare consapevolezza e fiducia in sé stesso. Come un supereroe Leo vive una doppia vita: in quella reale non ha le forze di alzarsi dalla sua sedia a rotelle, in quella immaginata può volare libero sui cieli di una New York fantasiosa e cinefila, spesso inquadrata dall’alto e in diagonale, cartolina fantasmatica di un immaginario collettivo.
Nel racconto di Felicioli e Gagnol però i due mondi non si contrappongono ma coesistono con la stessa identica tattile realtà: Leo può così collaborare a un’indagine per salvare la città da un pittoresco supervillain (che sembra ibridare l’universo di Batman con reminiscenze umoristiche del vecchio Dick Tracy), lasciandosi trascinare nelle incursioni in un mondo criminale che mescola commedia e noir, suspense e divertimento, azione e stasi. Leo sceglie di vivere pienamente il suo giorno da leone, pur mettendo a rischio la propria fragile salute: se una guarigione è possibile questa si troverà infatti nell’accettazione delle fragilità, nel tentativo di superare i limiti, di gettare il cuore oltre l’ostacolo, di cancellare la paura con una scelta irrazionale.
Phantom Boy riesce nell’impresa di raccontare la storia di un bambino terminale bandendo la retorica dal proprio linguaggio e facendosi trascinare da un gusto classico per il racconto, smorzando i toni con il ricorso alla leggerezza, strappando con pudore qualche lacrima, ricordando che anche la malattia è un percorso di formazione destinato a produrre ricordi, nostalgia, complessità di sguardo. Come nel magnifico La mia vita da zucchina di Claude Barras, gli autori hanno scelto di fare i conti con le asperità della vita (lutti, malattie, ferite) affrontandole come fossero un romanzo d’appendice, non temendo il peso dell’argomento ma sfidandolo (e domandolo) con le caratteristiche tipiche dell’età che racconta. Ironia, forza d’animo e una vena di irresistibile, contagiosa follia: il mondo salvato dai ragazzini.
Bambino leucemico in cura all'ospedale scopre di avere dei superpoteri: il suo sangue malato gli consente di staccarsi dal corpo a mo' di fantasma. Svolazzando per New York, diventa il braccio destro di un poliziotto in sedia a rotelle che dà la caccia a un gangster pagliaccio che sta ricattando la città.