Il cinema di Alberto Rodriguez, che insieme a Rodrigo Sorogoyen è probabilmente l’autore più interessante del recente panorama iberico, è perennemente bloccato in un limbo storico, del quale scruta e analizza i fantasmi oscuri e le conseguenze sull’attualità. Anche Prigione 77, così come i precedenti L’uomo dai mille volti e La isla minima, si situa in quella fascia in via di progressiva e difficoltosa definizione nota come Transicíon democrática, il periodo che va dalla morte di Francisco Franco alla caduta della UCD di Adolfo Suárez, all’inizio degli anni Ottanta. In questo caso, ambienta la sua storia nel carcere di Barcellona, La Modelo, tre mesi dopo la morte del dittatore, per mostrare attraverso il suo sapido gusto per la narrazione di genere una sacca di resistenza che cede molto più lentamente del resto del paese al graduale accesso ai diritti civili.
Protagonista è Manuel, il Rio de La casa de papel, Miguel Herrán, un contabile arrestato per appropriazione indebita ai danni del suo principale, che assapora la spietata rudezza delle guardie carcerarie prima di avvicinarsi a un’associazione di detenuti che punta all’amnistia per i reati politici e sociali, quelli che venivano occultati dal regime come la polvere sotto i tappeti. In una società che (all’esterno) stava evolvendo, seppur con tutti i suoi squilibri e i prevedibili assestamenti, la cruda realtà carceraria è proposta da Rodriguez e dal fido collaboratore alla sceneggiatura Rafael Cobos come un universo pervasivo e distopico, in cui la claustrofobia dell’ambiente, i toni opprimenti, i piani che schiacciano le prospettive dei personaggi contro i margini delle pareti, la massa indistinta di secondini con caschi e manganelli mulinanti forniscono l’immagine e i toni di una violenta coercizione in atto, perché ancora acerba la prassi dialettica della politica. Il riferimento ― velato ma non troppo ― a Bradbury (i libri bruciati dai “pompieri incendiari”, come dice il personaggio di Pino guardando il rogo nel cortile e la loro sopravvivenza mnemonica ad opera dello stesso personaggio) è la prova di un incubo che ha un sapore letterario pur essendo profondamente ancorato a un realismo offensivo per le coscienze.
Rodriguez non rinuncia alla sua passione cinefila e citazionista (lui che durante gli anni della formazione ha alimentato la sua passione grazie anche a un padre proiezionista in un cineclub di Siviglia) e inserisce la riflessione sulla natura oppressiva del potere all’interno di un filone perfettamente riconoscibile per setting e codici utilizzati. Il filone carcerario e in particolare la sua declinazione hollywoodiana (Fuga da Alcatraz, Fuga di Mezzanotte, Le ali della libertà, ma anche Papillon e La grande fuga), che si evidenzia nel manicheismo dell’assunto e non attraverso una soggiacente ambiguità morale come nei più felici esempi europei (Un condannato a morte è fuggito oppure Il buco), propone una geografia di riferimento nella quale Rodriguez può infatti allestire il suo consueto discorso sui fantasmi inconsci della Spagna, incapace di rinnegare del tutto un fascismo antropologicamente radicato. E per questo dedita a una politica del compromesso, più che dello strappo, malgrado le promesse e le dichiarazioni pubbliche, come evidenziato dal risultato delle votazioni parlamentari sull’amnistia, attese nel carcere come il momento risolutivo di tutte le sofferte lotte e invece giunte a definire una tiepida politica riformista di taciti accordi con gli esponenti del vecchio regime.
All’interno di questo preciso allestimento, Rodriguez modula i suoi temi personali, facendoli in qualche modo progredire rispetto agli ultimi lavori. Il principio della solitudine dei protagonisti, da sempre centrale nella visione del regista, sottolineato anche narrativamente dal rigoroso isolamento a cui è spesso relegato Miguel Herrán e raddoppiato scenograficamente dalla tendina con cui Pino (Javier Gutiérrez) si cinge ulteriormente nella già angusta cella che condivide con i compagni, si stempera nel finale in un inconsueto afflato ottimista, quando la coincidenza delle sagome di Manuel e della donna di cui è innamorato si compenetrano nel riflesso di una vetrina fino a coincidere. Allo stesso modo, l’atto forte preferito da Rodriguez, la metafora del vedere, si arricchisce rispetto ai film precedenti. Il tentativo dei personaggi creati dal regista è sempre lo stesso: controllare per non essere colti alla sprovvista. Ma qui, in un carcere che ricorda per circolarità della struttura architettonica i principi del panopticon di Jeremy Benthan, la prospettiva è ovviamente ribaltata. Gli angoli ciechi di cui si ciba il cinema di Rodriguez diventano, se visti nella loro reciprocità, la modalità con cui è esercitato il potere attraverso il controllo di ogni singolo movimento, come teorizzato dal Foucault di Sorvegliare e punire. La prospettiva non è dialettica, perché abbandona la duplicità tra osservare ed essere sorvegliati per accedere a una terza eventualità, quella di guardare in una dimensione ulteriore, inserita tra le prime due e trascendente rispetto a esse, così come alludono gli occhialini stereoscopici con cui Manuel ad un certo punto del film osserva il cortile del carcere. È una metafora che allude alle scelte da operare e alla volontà particolare: tra l’accettazione stoica della pena e la speranza vana di un’amnistia, la via da percorrere non è politica ma individuale e prevede l’ipotesi della fuga. Ancora una condanna alla solitudine, se non fosse per quel barlume di speranza d’unione finale.
Spagna, anni 70. Manuel è un giovane commercialista condannato a una pena eccessiva di 20 anni per aver sottratto una somma di denaro. Aiutato dal suo compagno di cella Pino, Manuel diventerà il leader di un movimento che unirà tutte le carceri in una lotta che cambierà il diritto penitenziario. Fuori, nel frattempo, dopo la morte del Caudillo Franco è iniziata la transizione verso la democrazia.