Quel giorno tu sarai, come Pieces of a Woman, è un racconto di frammenti. Non si tratta però, come nel film precedente, di una ricomposizione individuale in seguito a un trauma personale, bensì di un processo collettivo conseguenza degli orrori della Storia. Il film si muove dunque di generazione in generazione per indagare le conseguenze dell’Olocausto su una famiglia ebraica raccontata in tre momenti distanti nel tempo ma profondamente legati l’un con l’altro.
Per la coppia di cineasti ungheresi, Kornél Mundruczó alla regia e Kata Wéber alla sceneggiatura, il punto di partenza di una riflessione sulla memoria storica e sull’identità non può che risiedere nella precisa matrice orrorifica e disumana dell’atto tragico. A rompere il silenzio del terrificante incipit del film - un claustrofobico piano sequenza realizzato all’interno di un edificio buio e sudicio dove alcuni soldati cercano vanamente di ripulire pavimenti e mura dai residui umani, peli e capelli, che intasano ogni rientranza e anfratto di quella che si rivela essere una camera a gas di Auschwitz - è il pianto di una bambina, il segnale di un’apertura. Questo primo segmento Eva, caratterizzato da una cifra stilistica che richiama scenari post-apocalittici in cui pesa la mano del direttore della fotografia Yorick Le Saux (frequente collaboratore di Ozon e Assayas), si collegano con un enorme salto stilistico i due capitoli successivi del film, Lena e Jonas, che muovono il discorso dalla messa in scena del trauma in sé alla sua percezione e conseguente rielaborazione.
Dal dominio del silenzio della prima sequenza si passa al dominio della parola, con il verboso confronto tra Eva (Lili Monori), la bambina nata ad Auschwitz e ora nonna, e la figlia Lena (Annamária Láng), entrambe residenti in Germania. Lo scontro tra le due è culturale: cosa è rimasto, ora, del trauma del passato? Da sopravvissuta dell’Olocausto, Eva non può che guardare al reale con diffidenza, continuando a portare con sé quel peso insopportabile mentre Lena è animata da una radicale spinta ad andare oltre, forse anche in virtù di un’accettazione e di una conseguente liberazione del trauma stesso. Tra differenti disposizioni d’animo e attitudini alla vita, l’appartenenza culturale muta di significato: mentre Lena è spinta a recuperare una prova della sua identità ebraica per permettere al figlio l’accesso all’asilo, per Eva aver smarrito i segni di quell’appartenenza è quasi consolatorio. L’esame della Storia, per lei, è impietoso mentre per la figlia vincono il pragmatismo e la necessità. Non vi è alcun errore nei due modi del pensiero né prescrizioni morali soggiacenti, si tratta di due riletture diverse del sé, la seconda complementare alla prima.
Nel capitolo dedicato a Jonas, il figlio di Lena, l’operazione concettuale di Mundruczó e Wéber diventa ancora più chiara. Il ragazzo, bersaglio di discriminazioni antisemite a scuola, è innamorato di una ragazza musulmana e si lascia trascinare da una passione autentica e genuina, dimostrandosi completamente disinteressato da ogni possibile differenza sociale e culturale. Il percorso tratteggiato dai due cineasti ungheresi si conclude dunque nel suo terzo atto con una nota toccante e ricca di umanità. Con una spiccata consapevolezza del contemporaneo, Quel giorno tu sarai ricompone così il proprio mosaico frammentario cercando tra le pieghe del presente una risposta ai traumi ancora vivi del passato, con uno sguardo registico che è in grado di prendere coscienza degli orrori della Storia, di affermare la necessità imperativa della memoria e allo stesso tempo di spingersi verso una direzione che prevede l’emergere di nuove identità condivise, contro ogni separazione e ingiustizia sociale.
Protagonista del film è una famiglia che attraverso tre generazioni si confronta con l’eredità della Shoah, dalla nascita miracolosa di Éva in un campo di concentramento fino alla vita quotidiana del nipote Jonas e di sua madre nella Berlino multietnica di oggi. Ispirandosi a eventi realmente accaduti, Mundruczó e Wéber realizzano una riflessione potente sulla memoria e l’identità.