È lungo e accidentato il percorso che Sylvester Stallone fa percorrere, nell’arco di più di quarant’anni, ai suoi due personaggi identitari, Rocky (1976) e Rambo (1982), per condurli dall’originale matrice proletaria e anti-sistemica a una forma di naturale spegnimento, che è insieme viale del tramonto dell’eroe, rassegnata accettazione dell’incongruenza tra il corpo dell’attore (e autore) e quello del personaggio, ma anche di un certo anacronismo ideologico e narrativo. Dopo averne stravolto la natura in un’ubriacatura reaganiana che per Rambo arriva già nel secondo capitolo (il primo sceneggiato da Stallone, insieme a James Cameron), mentre per Rocky deve aspettare il quarto, entrambi del 1985.
Rocky Balboa e John Rambo percorrono strade parallele: sono due ragazzoni proletari (il primo di Philadelphia, il secondo dell’Arizona), costretti a scegliere il combattimento (sportivo e bellico) come unica forma di affrancamento dalla realtà, fuori posto, derisi, malvisti, finiti per caso nella traiettoria di una sfida lanciata per ubris dal sistema statunitense (quella privata e mediale di Apollo, quella storica e sociale della guerra in Vietnam). Nell’icona del combattente sul ring (palco, set, studio…) Stallone ha sempre visto riflessa in modo più esatto la propria parabola, dalla povertà alla ricchezza, dal dileggio alla fama, e poi dalla gloria alla decadenza: ecco perché già con Rocky Balboa (2006) era riuscito a mettere le cose a posto, in un film di nuovo povero in partenza, ma poi baciato dal successo al botteghino, in cui cede alla sconfitta (ma ai punti, e per verdetto non unanime…), all’autoironia (la quasi parodia del celebre allenamento), alla nostalgia (la morte di Adriana), alla consapevolezza che quel mito può vivere soltanto nella simulazione digitale, negli incontri di esibizione, nella memoria e nel lascito di un’eredità. Con Creed dimostra che può non essere un lascito testamentario e, ancora una volta imprevedibilmente, Rocky Balboa si rialza dal tappeto, per un altro round: one step at a time, one punch at a time, one round at a time.
Per John Rambo è tutto molto più difficile, forse perché lo è stato fin dall’inizio: tornare dal Vietnam come reduce, reintegrarsi nella società, non è come perdere un incontro di boxe. Se Rocky può diventare Mickey (allenando il giovane figlio di Apollo), Rambo non può diventare Trautman. Rambo non ha nulla da insegnare, non può tornare all’accademia ad addestrare reclute, come il Maverick del prossimo Top Gun, forse proprio perché l’accademia non l’ha fatta, non ha mai studiato, ha solo combattuto, ucciso e (lo scopriamo adesso) addestrato cavalli. E nemmeno gli è concessa la scappatoia dell’ironia: quella l’ha convogliata tutta nel franchise de I mercenari.
Dopo essere tornato a salvare i prigionieri americani nel Nord del Vietnam, aver cercato di liberare da solo l’Afghanistan (un attimo prima che i Russi se ne andassero) e i missionari in Birmania, John Rambo si è ritirato nella fattoria del padre (era l’epilogo del penultimo capitolo, del 2008), con i suoi cavalli, una vecchia domestica messicana di famiglia e la di lei nipote, amata come la figlia che non ha mai potuto avere (per un attimo si intravede il modello Creed). Anzi, sotto la fattoria, visto che si è costruito da solo una rete di gallerie nel suo terreno di proprietà, dove dorme, ascolta Five to One dei Doors, ammucchia cimeli del passato (medaglia, fotografie, armi), continua a forgiare coltelli e a combattere con i fantasmi.
Poi i messicani cattivi gli rapiscono la nipote, la drogano e la preparano al traffico di prostituzione, e lui, com’è prevedibile, si incazza. La recupera, ma non la salva. Invece di stanarli nelle loro residenze da sogno oltreconfine, li attira in casa, riempie i cunicoli di trappole, e li ammazza uno per uno, fino al parossistico sacrificio umano finale (quando Rambo dice «ti strapperò il cuore come tu hai fatto a me…» intende proprio quello: il piano metaforico è concepibile solo per se stesso). Riflette un po’ sulla sedia a dondolo nel patio (ferito) e poi cavalca verso il tramonto.
I presupposti di partenza sono, in tutta onestà, molto interessanti.
È in diretta continuità con il primo (a partire dal titolo: Last Blood dopo First Blood) perché rimette al centro il tema della casa (home e country), nella quale non riesce a trovare spazio, posto (fisico e sociale) e serenità. Non potendo trovare un ruolo sopra (nelle prime scene ci racconta il tentativo, frustrato, di ricrearsi un’identità come volontario per le ricerche di sopravvissuti durante un uragano), si rifugia sotto (come nella miniera abbandonata del 1982).
John Rambo vorrebbe essere un homeboy, ma non riesce a trovare pace: senza un Trautman (morto lui, e anche Richard Crenna) che gli affidi una missione per andare lontano, deve accettare che la guerra ce l’ha dentro, o a pochi passi da casa. La critica statunitense l’ha immediatamente accusato di filo-trumpismo per i character messicani stereotipati, che pure non differiscono molto da quelli di Sicario e Soldado, e a voler guardare con attenzione il famigerato muro non serve proprio a niente, perché Rambo (in sprezzo a qualunque principio di realismo) lo attraversa da una parte all’altra senza problemi, abbattendo una recinzione, portandosi dietro di volta in volta una ragazza morta di overdose e la testa mozzata di un cattivo, e semmai ne denuncia la funzione puramente simbolica e propagandistica, visto che i narcos ci passano sotto, perfettamente organizzati, e in piena collaborazione con i criminali statunitensi.
Piuttosto è centrale il tema della frontiera, che lo collega (almeno nelle intenzioni) al genere western: Rambo ha smesso i panni del militare (non c’è più la piastrina ad identificarlo, ma la patente di guida plastificata) e del cane sciolto (niente più fascia alla testa, petto nudo e poncho sformato, ma solo abiti civili), ed è diventato un vecchio cowboy malmostoso (spaventa gli amici della nipote solo fissandoli) e malato (prende pastiglie su pastiglie).
Sentieri selvaggi, naturalmente, ma anche un po’ di Gli spietati (la scena di violenza sull’eroe, la pratica con le armi, la vendetta finale). Se solo ci fosse un regista. Nemmeno Ford o Eastwood, ma almeno James Mangold, che l’aveva meravigliosamente diretto in Cop Land (il vero epilogo della saga di Rambo), e che due anni fa ha firmato il film che più assomiglia a quello che avrebbe potuto essere questo Last Blood, cioè Logan. Non a caso Mangold re-ambienta il fumetto originale di Mark Millar (Old Man Logan, piccolo capolavoro, e molto vicino a ciò che il film di Stallone diventa, soprattutto nella seconda parte) ai giorni nostri e sulla frontiera tra Messico e Texas. Quando Rambo stringe i pungi davanti al viso, nel tentativo disperato di controllarsi, sembra davvero il Wolverine impegnato a trattenere le lame di adamantio, e lo stesso quando, in preda al furore cieco, affetta letteralmente le sue vittime, tra coltelli e orpelli, o penetra nel loro corpo a mani nude (a uno estrae anche la clavicola).
Ma, purtroppo, tutto questo è pura suggestione di chi ama il genere, prova disperato affetto per Sly, e si compiace di citazioni enciclopediche che potrebbero esserci. La realtà è che, nonostante tutti i buoni propositi dello Stallone sceneggiatore, il regista Adrian Grunberg è di una modestia impressionante, nonostante un lungo curriculum di esperienze come assistente alla regia o direttore della seconda unità che avrebbero potuto giovare al tema: le serie tv Narcos e Narcos: Messico, e prima Jack Reacher, Man on Fire, addirittura Traffic. Il risultato è che su tutta la prima parte aleggia in modo disperevole il fantasma di Walker Texas Ranger, mentre la seconda (quella della preparazione alla vendetta e della mattanza finale) si sposta improvvisamente verso il torture porn, tra Saw e Hostel. E sarebbe forse anche la più interessante, nella sua sfrontatezza catartica, nella sua violenza gratuita, quasi un tunnel dell’orrore da parco dei divertimenti, un’iperbole delle imboscate notturne del primo capitolo, in cui paletti di legno acuminati, spunzoni metallici, travi portanti, bombe, fucilate, fuoco, terra e frecce lacerano, squarciano, devastano, sbudellano.
(Se non fosse che la presenza scenica di un signore di 73 anni costringe a ridurre al minimo i controcampi su di lui, che prova a sgattaiolare tra i cunicoli, e le scene di raccordo.)
Quando tutte le trappole sono scattate, quando anche le gallerie esplodono, e non rimane più nient’altro da vedere che la casa, il patio, e la sedia a dondolo, finalmente John Rambo si siede, pensa al suo destino, e capisce che non c’è più posto per lui in questo mondo. Per la prima volta, non è riuscito a salvare nessuno: gli escursionisti nella prima scena, la nipote, ma soprattutto se stesso. Non è riuscito a preservare la casa, l’illusione di una nuova vita.
E poi, sui titoli di coda, parte un ennesimo montaggio delle scene più importanti di tutta la saga, da First Blood a Last Blood (surreale l’effetto del recap del film appena visto).
John Rambo tace, e capisce (forse) che non c’è più posto per lui in questo cinema.
R.I.P. John Rambo. Ne è valsa comunque la pena.
L’ultimo capitolo della serie leggendaria. John Rambo dovrà affrontare il suo passato e riportare alla luce le sue spietate abilità di combattimento per affrontare un cartello messicano invischiato nel commercio sessuale di ragazze nelle zone dell’Est.