Rapina a Stoccolma è un gioco, di ruoli. Lars Nystrom indossa una parrucca, diventa Kaj Hansson e si attribuisce il suo ruolo, ripetendo “sono il fuorilegge”. È un fuorilegge e un americano, tanto che il capo della polizia lo chiama “cowboy”. Un fuorilegge americano in Svezia, intento a rapinare una banca e a sequestrare ostaggi. Una vicenda di cronaca. Una rapina bizzarra e impacciata. Un sequestro di persona che porta i sequestrati a rivalutare e ribaltare i loro ruoli e le loro volontà. Da qui nasce la “sindrome di Stoccolma”.
Il “cowboy fuori legge” e i sequestrati non sono le sole parti interpretate in questo film-gioco di ruolo. C’è il capo della polizia, il compagno criminale che aiuta il protagonista, il primo ministro, la stampa e la famiglia di una delle sequestrate. Un richiamo a stilemi di genere, alla rapina/sequestro nel cinema e a varie funzioni di personaggi, tipiche di un immaginario cinematografico americano altamente spettacolare. Il tutto messo in gioco con ironia e malinconia. Così come David Lowery realizza in Old Man & the Gun, altrettanto Budreau fa in questo film. Entrambi sono tratti da articoli del New Yorker su rapine e crimini assurdi, entrambi giocano e scherzano con queste storie lasciando un piccolo spazio a malinconia e sentimentalismo.
Rapina a Stoccolma però, oltre che con ruoli e stilemi, gioca con l’incontro di due immaginari e da esso ne fa scaturire l’elemento più ironico. Il rapporto tra Stati Uniti e Svezia si rispecchia nell’incontro tra due realtà inconciliabili: una spettacolare ed esuberante, l’altra ordinata e schematizzata. La prima sfaccettatura di questo rapporto è il contesto storico che vede gli Stati Uniti in pieno scandalo Watergate e la Svezia nel primo sequestro di ostaggi di tutta la nazione. In un secondo momento, i due immaginari si riflettono sui due personaggi principali: il protagonista americano (Ethan Hawke) che chiede come riscatto un amico carcerato e un’automobile, lasciando confusa la polizia, e la donna svedese sequestrata (Noomi Rapace) che quando ha la possibilità di parlare al marito, gli dice come cucinare la cena per i figli, lasciando altrettanto interdetti gli altri personaggi. Il film quindi mette in scena gesti, come la rapina e il sequestro, che sono fortemente parte della tradizione narrativa americana, in un contesto extra-nazionale. Spettacolarità e rigidità si incontrano in situazioni tragicomiche messe in scena attraverso l’incapacità di entrambe le parti (rapinatori e autorità) di gestire le situazioni.
Il regista Robert Budreau, dopo il metafilm Born to Be Blue, torna ancora una volta alla fotografia patinata che insiste, anche esteticamente, sull'apetto finzionale di storie realmente accadute. Proponendo un film che gioca e scherza con la retorica, con i luoghi comuni nazionali, con i ruoli dei personaggi e con i generi. E con musica. Ancora una volta. Se in Born to Be Blue Chet Baker era il protagonista assoluto, in Rapina a Stoccolma è Bob Dylan a dominare. La sua presenza, non fisica (a differenza di Baker) ma solo musicale, accompagna tutti i personaggi. La canzone “Tomorrow Is a Long Time” è, forse, l’unico filo conduttore. Malinconica, sconsolata… ma anche una canzone d’amore, come questa storia o, almeno, parte di essa.
Stoccolma, 1973. Lars Nystrom, un rapinatore alquanto eccentrico, irrompe nella banca centrale e prende in ostaggio alcuni impiegati per costringere la polizia a scarcerare il suo amico Gunnar. Con i suoi modi bizzarri, Lars riesce ad accattivarsi le simpatie e l’aiuto dei suoi sequestrati, soprattutto di Bianca, moglie e madre di due bambini. Il paradossale rapporto tra Lars e i suoi ostaggi ha dato origine al fenomeno noto come "Sindrome di Stoccolma".