Le grandi produzioni del cinema di animazione mainstream offrono spesso l'occasione di riflettere sia sulle tendenze del cinema contemporaneo e sul tempo nel quale sono state concepite. Raya e l’ultimo drago, ultimo ritmato e dinamico classico Disney, è in tal senso è paradigmatico: ampiamente influenzato da un mondo dell’intrattenimento sempre più lontano dalle dinamiche filmiche e drogato da quelle videoludiche e al tempo stesso in strettissimo dialogo e sintonia con la contemporaneità.
Per ripristinare la pace e l’unione in un mondo profondamente dilaniato dalla ferocia umana, la giovane Raya, la protagonista, deve infatti portare a termine una missione ardua: rubare i cinque frammenti di una gemma potentissima custoditi dalle altrettante tribù che si spartiscono l’egemonia. Ogni tappa prevede quindi un diverso gruppo di nemici da vincere, un diverso ambiente da esplorare e differenti qualità da sfruttare al meglio per riuscire nell’intento. Raya, il film, funziona proprio come un videogioco strutturato a livelli, dove via via il tutto si rende sempre più difficile, più complicato. L’idea di sviluppare il film in capitoli, inoltre, sfrutta la suddivisione in episodi tanto cara alla narrazione contemporanea che nella fruizione di show seriali sembra aver trovato la sua misura più vincente.
Se quindi anche un marchio come Disney opta per un dialogo profondamente connesso con i mercati più popolari dell’intrattenimento più recente, stiamo allora vivendo anni decisamente mutevoli per il cinema che da faro guida o arte seminale si sta trovando sempre più a dover fare i conti con nuove forme di narrazione mirate a un nuovo target, un nuovo spettatore più propenso all’interazione e alla frammentazione che alla passività di uno spettacolo pirotecnico. Per questo motivo Raya racconta sostanzialmente l’importanza di una rivoluzione sul piano culturale. Nel film i giovani(ssimi) protagonisti dovranno condurre battaglia prima di tutto contro le vecchie generazioni (prestate attenzione all’età anagrafica dei vari villain che via via si presentano in scena).
Il mondo tratteggiato all’inizio del film è un mondo disunito, distanziato, dove la logica individualista dettata dalla malfidenza nei confronti del prossimo ha paralizzato il genere umano. Così, per tornare a essere uniti, a essere vivi e a sciogliere l’incantesimo che ha tramutato in statue immobili (guarda un po’) la maggior parte degli abitanti, la protagonista non dovrà tanto dar prova di essere un’abile spadaccina o possedere chi sa quale rara abilità, ma si metterà a capo di un cambiamento di rotta unico ed epocale.
In mesi in cui gli ormai tristemente celebri distanziamenti sociali non sono altro che il riflesso di un distanziamento generazionale sempre più evidente; anni in cui il revisionismo storico e le battaglie per i diritti sepolti sotto secoli e secoli di tradizioni stanno ora emergendo in maniera repentina; decadi dove un settore (quello cinematografico) troppo spesso miope e acciecato da un apparente successo che gli ha permesso di sottovalutare la portata coinvolgente di altre forme d’intrattenimento, Raya è l’invito per provare a cambiare rotta, scommettere sul successo di gruppo invece che su quello personale (a tal proposito, interessante notare che siano ben quattro i registi accreditati come tali nei credits) e abbracciare nuovi orizzonti (geografici o narrativi che siano) per tornare a vestire il vecchio e glorioso smalto di un tempo: un monito che Disney, sposando recentemente il mercato orientale, sta in qualche modo ergendo a paradigma artistico per i suoi prossimi passi.
Nel fantastico mondo di Kumandra, dove un tempo umani e draghi vivevano in armonia, le forze del male minacciano il regno e i draghi si sacrificarono per salvare l'umanità. Dopo 500 anni, quelle stesse forze maligne sono tornate e spetta a Raya, guerriera solitaria, trovare l'ultimo leggendario drago per riunire regni e popolazioni divisi da tempo. Ma nel corso della sua ricerca Raya imparerà che non basta un drago per salvare il mondo: serviranno anche fiducia e collaborazione.