Una distesa desertica, nessun’avvisaglia di anima viva. Il blu-verdastro dei costosi occhiali a specchio di Richard distorce il panorama e lentamente rivela il volto dell’uomo, saturato dal bruciare del sole. Dietro di lui, la ragazza-oggetto Jennifer, chiaramente in secondo piano.
«Perché le donne devono sempre opporsi?» è l’unica frase che esce dalla bocca di Richard nello scontro finale. Eccetto che in questa storia la donna non è realmente oppositrice, poiché non è antagonista.
In Revenge la donna si riscatta, elevandosi da preda del desiderio maschile a eroina di un film che ha dell’horror, del noir, ma anche del pop, in questo coloratissimo universo portato all’assurdo dove il consumismo ha travolto e colonizzato la sfera dei rapporti umani. Dove lo stupro è un piacere associato al junk food nella bocca disgustosa di un ingordo, la violenza il vero e proprio consumo di un bene. Così, come oggetto di godimento, come capriccio è dipinta la sensuale accompagnatrice di Richard, usata per il piacere maschile dello sguardo e per la perversione del corpo, colpevole, lei, di essere “irresistibile”.
La relazione umana, metaforizzata dalla caccia, è un rapporto di utilità, di consumo, dove sei la preda o sei il cacciatore, il vinto o il vincitore. In un individualismo estremo che dall’odio tra i generi sfocia nella misantropia, l’unico scopo esistenziale pare essere il puro edonismo, dove il sentire non va oltre la sfera puramente fisica e corporea, identificandosi con la violenza, nel contatto con la carne e con il sangue - propri e altrui. Un vuoto che si configura con la shallowness della televendita sulle cui voci cui si svolge l’ultimo e definitivo confronto. E che sta molto bene in un film dove i dialoghi sono ridotti all’osso e si contano sulle dita di una mano, dove invece a parlare sono i sensi - vista e udito -, che guidano gli impulsi e decidono l’esito delle battaglie.
In uno scontro all’ultimo sangue qualcuno deve soccombere, e non sarà certo l’essere più evoluto, la ragazza quasi zombie autoricostituita grazie a una lattina di birra, ma quello vecchio, il modello superato, l’uomo che gioca ad essere Dio sfidando gli equilibri di quella (seppur micro-) società umana.
Revenge ricorda l’Ex Machina di Garland, una bolla di universo dove quello che succede rimane anche, e chissà se e come intaccherà il resto degli esistenti. E quello che accade è la vendetta spietata e senza cuore di un essere fino a quel momento sottomesso e soggiogato, un oggetto nelle mani di uomini che sono guardiani apparentemente inattaccabili.
Ma il film di Coralie Fargeat non ha l’essenza distopica di quello di Garland. Revenge, al contrario, vuole porsi come utopia di una trasformazione radicale; è vendetta individuale ed è vendetta di genere. Jennifer, una riconfigurata femme fatale dalle connotazioni più che positive, plasmata dal deserto e da un inumano istinto di sopravvivenza, è specchio chiaro della metamorfosi storica e sociale che la donna, come ruolo e come posizione, sta subendo e operando nel nostro contemporaneo. La vendicatrice, quale speranza e ambito risultato del femminismo, rinasce come donna nuova non in dipendenza da ma in opposizione all’uomo. Un uomo che ricalca le fattezze del mostro horror, artefice del male, che da cacciatore diventa preda, nel mirino del fucile di un essere post-donna, forte, indipendente, badass.
Jen, una lolita dei giorni nostri, viene invitata dal suo ricco amante alla tradizionale battuta di caccia che l’uomo è solito organizzare con due amici. Lontana da tutto e immersa nello spettacolare scenario del Grand Canyon, la ragazza diventa presto preda del desiderio degli uomini e la gita prende una piega inaspettata.