«Siccome rubo tutto, non ho bisogno di soldi» dice Julia, la protagonista di Rodeo, interpretata dall’attrice non professionista Julie Ledru. Nel giro delle esibizioni clandestine di moto rubate, in cui orde di ragazzi della periferia di Bordeaux compiono evoluzioni sull’asfalto e sgasano a palla orgogliosi della loro mascolinità, lei, Julia, è l’unica ragazza e non a caso si fa chiamare la Sconosciuta, come se fosse un fantasma, decisa a non farsi accettare ma a imporsi a forza, con la sua cocciutaggine, la sua arroganza disperata, aldilà della presenza incongrua (capelli ricci lunghi e selvaggi, fisico minuto) e delle passioni inattese (ogni volta si sente chiedere se sa davvero guidare su una moto…).
Julia è nulla, aspira al nulla, di lei si sa poco o nulla, se non che ama le moto, che le ruba cercando annunci online, che vuole far parte di una famiglia allargata salvo poi non legare con nessuno o quasi e proseguire indifferente il suo cammino. A un certo punto comincia a lavorare per il capo della gang di motard spericolati, per il quale pianifica e attua furti di motociclette da truccare poi in un garage, diventando pure amica della moglie dell’uomo, Ophélie, che vive da reclusa con il figlioletto Kylian.
Attraverso Ophélie il film mostra un’immagine di femminilità opposta a quella della protagonista, vittima di un maschilismo da sottoproletari laddove Julie è indifferente a ogni definizione d’identità (è creola ma lo dice senza orgoglio, come un’ovvietà), priva di desiderio sessuale e di necessità fisiche. In questo senso, la cosa più interessante di Rodeo è proprio la rappresentazione parificata tra corpi e oggetti, entrambi superfici concrete, mute e non mutanti, fatte di carne o di metallo, oltre ogni connotazione sessuale o imposizione narrativa. Julia e i suoi compagni di scorribande non si attraggono, quasi non si parlano, agiscono secondo interessi monodirezionali. I loro corpi sono solidi come le carrozzerie delle moto che cavalcano, incapaci di distinguersi l’uno dall’altro (e la stessa Julie non sa riconoscere il ragazzo che la aggredisce e minaccia), così come la trama non ha una vera direzione, non aderisce ad alcun genere, con le esibizioni notturne che non diventano mai gare e le scene di furto che finiscono incerte e caotiche.
Nel buio della notte, dunque, si smarriscono tanto le strade di Julie quanto le traiettorie del racconto, portando addirittura all’estinzione della protagonista in un finale forse fin didascalico. Lola Quivoron, che con questo suo primo film è stata premiata lo scorso anno al Certain regard, non regge, insomma, la radicalità del suo approccio, optando per un realismo artificioso da festival (così come da festival è l’estetizzazione delle vite di giovani marginalizzati dalla società ma osservati con compiacimento dal cinema d’autore) e ricorrendo, in controtendenza all’approccio anti-narrativo, a un simbolismo astratto (l’iniziale slancio appassionato di Julia è interrotto dal trauma della morte di un ragazzo appena conosciuto, il cui ricordo si manifesterà con segni sul corpo…) e a momenti d’estasi (la “liberazione” di Ophélie e Kylian) che sono un cedimento a un’idea di bellezza e felicità posticcia.
Ragazza fieramente indipendente, Julia scopre la passione per le moto e per il mondo dei “rodei urbani”, incontri clandestini in cui i motociclisti si mettono in mostra con i loro mezzi fiammanti e con le loro spericolate acrobazie. Julia entra a far parte di una gang criminale dominata da uno spirito machista al quale si adegua facilmente. Chiamata a mettersi alla prova, finirà per compiere scelte sempre più rischiose, finendo per mettere in dubbio la sua stessa passione e il posto che occupa nella sua nuova comunità.