C’è il fantasma di Marco Bellocchio nell’Italia del 1990 di Annarita Zambrano e del suo Rossosperanza: un fantasma evocato e replicato in modo automatico, maldestro; un convitato nemmeno troppo di pietra che condiziona i toni pesantemente grotteschi del film, il senso di mistero e del ridicolo che aleggia su tutto e non porta a nulla.
È bellocchiano (da Nel nome del padre) l’istituto correzionale al centro del racconto, una villa signorile gestita da figure intrallazzate con le alte sfere del clero e che accoglie i figli venuti male dell’alta borghesia romana: medici, politici, ammiragli. È bellocchiana la sfilata di orrori da Prima Repubblica agonizzante, i vestiti grigi, le acconciature faraoniche, le famiglie che tengono al decoro più di ogni cosa, gli scheletri del fascismo nascosti, le cerimonie funebri, il codazzo di macchine di rappresentanza. Ed è bellocchiana, ovviamente, la reazione da pugni in tasca dei giovani protagonisti, fiori del male da rinchiudere e rieducare perché affetti da istinti non consoni alle origini e al casato: il figlio marchettaro del politico presumibilmente della DC, la figlia ninfomane della signora perbene, ninfetta amante di un simil-Berlusca e già pronta per Non è la Rai, la figlia musona e matta da legare del medico personale di “sua Santità”, un ragazzo muto bravo a disegnare che ha strappato a morsi un anello da un dito… Insieme, queste quattro figure di reietti e ribelli – cool anche se fuori dal mondo, schiave del desiderio ma proprio per questo bellissime, le uniche dotate di colore e senso d'appartenenza – sono prigioniere e insieme distruttrici della villa, frutti naturali di un mondo marcio e per questo marce anch’esse, ma salvate proprio dalla loro dannazione…
Lo stile della regista si adatta allo spirito dei suoi eroi sbagliati, con scene in discoteca, sequenze ritmate da musica dance-pop, momenti di stupore e di orrore esibito, anche una sequenza animata che rende esplicito il bisogno di squarciare il velo delle apparenze, dei corpi nascosti e desiderosi di mostrarsi. A livello narrativo, il film non ha un filo che si dipana, ma muovendosi avanti e indietro nel tempo porta dentro e fuori dalla villa, dentro e fuori dalle vite dei protagonisti, usando come trait-d’union il rosso dei 33 giri e le canzoni d’epoca che trasmettono: si parte con Lullaby dei Cure, per dire del tono di ricerca… Da quelle canzoni messe come in una playlist nasce il desiderio che distrugge l’apparenza e porta alla punizione del mondo raccontato da Rossosperanza: un mondo che non è la distorsione di un pensiero, come in Bellocchio, ma è semplicemente il teatro degli orrori di adulti decadenti (significativamente i padri delle varie famiglie in scena sono interpretati dallo stesso attore, Andrea Sartoretti), come se la regista, rispetto al precedente Dopo la guerra (ritratto di un'altra cultura decadente, in quel caso la sinistra brigatista), avesse deciso di fare un passo indietro storicamente e uno in avanti stilisticamente, spingendo sul pedale del tragicomico.
Il problema di Rossosperanza, aldilà di una visione ingenua e assolutoria della storia e dell'evoluzione del nostro paese, è quello di voler chiudere i conti con un passato in realtà già ampiamente digerito dal cinema e dalla tv (fosse anche solo dalla serie 1992, 1993 e 1994), infierendo in maniera esplicita su un cadavere in decomposizione e rappresentando i suoi personaggi come poser senza psicologia e senza personalità, a cui i toni semiseri o sperimentali non aggiungono o tolgono nulla. Di chi dovrebbero essere padri, in fondo, questi figli abbandonati del passato? Da quale speranza essere sedotti o di quale speranza essere portatori?
Zena, Marzia, Alfonso e Adriano, figli reietti di gente perbene, si incontrano nella costosa Villa Bianca dove le loro famiglie li hanno spediti per farli diventare "normali". È il 1990, l'Italia che conta balla ancora. Ma una tigre, scappata da chissà dove, si aggira libera e affamata. C’è chi balla, chi ama, chi guarda. E c’è chi uccide.