Rotting in the Sun è un film fluttuante come lo è da sempre il cinema di Sebastian Silva. Ancora una volta il regista cileno scrive infatti con Pedro Peirano un film in cui lo spettatore è sviato in un continuo depistaggio.
Il racconto si apre come un mocumentary sullo stesso Sebastian che, installatosi a Città del Messico, si trova ad affrontare una fase depressiva della propria esistenza. Lo vediamo passare le giornate al parco con il levriero Chima dove, come un contemporaneo flaneur, osserva l’umanità per lo più derelitta che lo circonda. Guarda da lontano, sgrida il cane, si deprime per poi tornare a casa continuando nello scroll di Instagram la sua indagine su un’umanità che gli sfugge sempre di più e con la quale non riesce a mettersi in relazione. Cerca allora nella ketamina un’alternativa al reale e fantastica sulla possibilità di liberare nel Pentobarbital (potente sonnifero per cani legale in Messico e spesso utilizzato per il suicidio) i demoni che lo affliggono.
Progressivamente però quello che inizia come una sorta di paradossale autobiografia comincia ad allargare lo sguardo includendo nella scena altri personaggi che non solo riconosciamo come membri di quella factory che Silva si è costruito intorno, ma che diventano elementi narrativi fondamentali nella costruzione del disagio del regista. Individuale o corale che sia, Silva mette infatti sempre al centro delle sue narrazioni ironiche e ciniche proprio il disagio, la difficoltà della relazione, lo spaesamento dei suoi personaggi, che di volta in volta affrontano, quasi loro malgrado, un viaggio (o l’idea di un viaggio) che li costringe a misurarsi con la propria alienazione.
Così entra nel film la signora Vero, domestica impacciata di Sebastian (la stessa Catalina Saavedra già protagonista del suo celebre La nana, terribilmente tradotto in italiano con il titolo Affetti e dispetti) che assiste sgomenta alla discesa tossica del regista, che catalizza la sua aggressività, che si fa urlare addosso sopratutto dal ricco locatario Mateo che irrompe continuamente in casa e nella vita di Seb con l’intento di scuoterlo dal suo avvilito torpore. La macchina a mano si muove scomposta negli ambienti della casa in ristrutturazione, segue i personaggi, indugia sui muri disegnati da Sebastian, sulla bustine di droga, sul letto sempre sfatto, sui continui segni di un’angoscia che pervade ogni angolo e che blocca lui e la sua creatività. Intorno i rumori del cantiere, gli operai che vanno e vengono. Tutto si muove freneticamente intorno a Sebastian tranne lui, incapace di destarsi. Anche quando accetta il consiglio di Mateo di partire per un weekend di sesso in una nota spiaggia gay non lontano, Sebastian non trova pace, né possibilità di rilassarsi e neppure elementi che stimolino la sua produttività artistica. Non capisce cosa deve fare né cosa fa o dice chi gli sta intorno; cerca conforto nella pagine di Cioran, nei video di Instagram, in un party al quale lo invita il vulcanico influencer Jordan Firstman che incontra per caso e che lo travolge con la sua convinzione che i loro destini siano indissolubilmente legati.
Proprio quanto Sebastian ci ha ormai convinto di essere il protagonista assoluto di questo racconto egoriferito senza apparente via d’uscita, con un imprevisto colpo di scena il film diventa qualcos’altro. Sebastian esce di scena, si fa fantasma e lascia Jason e Vero diventare l’improbabile fulcro di un nuovo viaggio, di una nuova ricerca, di un nuovo paradosso che spinge il film a colorarsi di nero, un po’ commedia e un po’ dramma, con quel cinismo ironico, strampalato, terribilmente umano con cui Silva sa raccontare una contemporaneità fatta di immagini sporche, di videochiamate, di stories, di Uber, di frenesia, di vitalità, di opportunità ma anche - se non soprattutto - di smarrimento.
Jordan Firstman, celebrità dei social media, inizia la ricerca del regista Sebastian Silva, scomparso a Città del Messico. Sospetta che la donna delle pulizie nell'edificio di Sebastian possa essere coinvolta nella sua scomparsa.