«Desidero la terra che non c’è, perché tutto ciò che c’è sono stanca di desiderarlo».
Sami Blood non è semplicemente un dramma semi-autobiografico, né pare esaurirsi in un film di mera denuncia sociale. Il lavoro di Amanda Kernell non si accontenta, ma ricerca – e trova – un che di nuovo, che sembra corrispondere piuttosto a un recupero atipico del genere western e alla sua ricollocazione in un nord Europa senza tempo.
Lo scontro di due civiltà – gli indigeni lapponi (Sami) e gli svedesi – sembra passare necessariamente per una dicotomia che molto si avvicina all’opposizione fondamentale del western classico, quella tra una wilderness fatta di natura, purezza e sensazioni e una civilisation chiusa tra i confini di una città e di un complesso di norme e pregiudizi passivamente accettati. Un’antitesi che tuttavia rimane incapace di risolversi in una sintesi; la distanza è una frattura irrimediabile, tanto nella storia ambientata negli anni Trenta – che recupera esperienze di vita reali vissute dalla nonna dell’autrice – quanto nella porzione contemporanea che apre e chiude il film in una bolla di malinconia e sconforto che ha un sapore amaro.
Il punto di vista della Civiltà coincide con quello dello svedese, in bilico tra un aperto razzismo (i ragazzi che insultano e maltrattano le sorelle lapponi) e una sorta di meraviglia o fascinazione che molto ricorda il sentimento di esotismo e il trattamento riservato agli indigeni dei paesi coloniali nelle cosiddette “esposizioni zoologiche”. Così, i medici svedesi studiano accuratamente le fattezze delle ragazzine Sami, noncuranti della violazione che ne operano, bensì spogliandole e fotografandole, nel candore della loro giovinezza e nella genuinità dell’au naturel, come pezzi da collezione; e, in modo simile, le amiche antropologhe di Niklas, attratte dal medesimo oggetto di studio Elle-Marja, finiscono per ridurre lei e il suo popolo a esotici esemplari da circo. “Sami” diventa – e rimane – nulla più che una creatura inferiore e affascinante, e l’incontro con l’Altro e con l’Altrove, il desiderio della “terra che non c’è” della poesia, sembra dissolversi in una umiliante performance di canto Joik.
Dall’altra parte sta invece la prospettiva più semplice di una giovanissima Elle-Marja – Christina, in città – passeggera del viaggio opposto verso l’ignoto, ragazzina a suo modo ribelle e magneticamente attratta, così come respinta, dal proprio Altrove, rappresentato dalla metropoli di Uppsala. Un’attrazione genuinamente fisica e corporea, che passa attraverso un’esplorazione e un esame attento dei sensi, un’ispezione naturale che ben si allontana dalle fredde misurazioni dei medici e dai loro meccanici apparecchi fotografici.
Quello di Elle-Marja è un tentativo d’immersione, un calarsi in una parte – nell’identità rubata alla maestra Christina come negli abiti “civili” sottratti prima alla mentore poi alla donna sul treno. Una metamorfosi desiderata tanto fervidamente da poter fungere da rinascita, che tuttavia non pare destinata al compimento. Sin da principio smascherata dai propri tratti, tradita dai propri colori e dalla propria modesta statura, anche l’anziana Elle-Marja/Christina è incapace di confondersi, perennemente inadeguata in un mondo di “diversi”.
Il figlio bussa alla sua porta, all’inizio e alla fine, senza ricevere risposta. Come lui, nemmeno lo spettatore è invitato a entrare, rimanendo ignaro del lunghissimo e misterioso gap esistente tra i giovani ricordi e l’anziana solitudine. Christina rimane sulle sue, inaccessibile, e idealmente separata dalle proprie radici, come i sottili vetri che si affacciano sulla terra indigena dividendo sempre e per sempre la Natura Sami e la Civiltà svedese. La donna, tuttora e senza fine incompleta, eternamente “in mezzo” e portata a un’esistenza fuori luogo – non solo, per lingua e abiti, tra i membri della propria famiglia, ma persino nell’ambiente che tanto tempo prima si è scelta rinnegando la propria origine – coincide, alla fine, con quella vecchia lappone in una discoteca di giovani svedesi che rivive i propri amari ricordi. Letteralmente marchiata, come le renne della sua infanzia, e impegnata a nascondere le proprie radici dietro ai capelli; rinnegando l’antico passato, e chiudendo la porta a tutto ciò che è Sami. Ma legata, inevitabilmente, al proprio sangue, e al cuore che la porta all’ultimo saluto con la defunta sorella.
Elle Marja è una ragazzina innocente della comunità Sámi, i “nativi” dell’estremo nord svedese. Esposta al razzismo coloniale degli anni Trenta e alla certificazione della razza a cui è sottoposta a scuola, la ragazza sogna una vita diversa in cui non doversi sentire ogni volta diversa. Per ottenerla dovrà però tagliare ogni ponte con la sua famiglia, con la cultura della sua gente e diventare un’altra.