Forse molto più che per chi realmente li ha vissuti, per coloro che li hanno solamente immaginati (come chi scrive), gli anni ‘80 sono gli anni mitici. Sono il decennio del sintetico, del fittizio, dell’appariscente. Ma sono anche il decennio in cui ai sogni si credeva davvero. Non ancora “infettati” dalla disillusione e dall’abitudine al mondo che caratterizza la “generazione ‘90”, i ventenni degli anni ‘80 potevano. Potevano perdere la testa davanti a un videoclip che oggi farebbe soltanto sorridere per la sua grafica “scadente”, potevano credere che i nuovi mezzi e la nuova musica sarebbero durati in eterno, potevano indossare abiti e accessori dai colori sgargianti, senza per questo sentirsi fuori luogo. O forse – e meglio – volevano essere fuori luogo. Osavano. Tanto nel trucco alla Ziggy Stardust, quanto nei progetti di vita.
Questo, più di ogni altra cosa, si percepisce guardando Sing Street, l’ultimo film di John Carney, in cui – come già in Una volta (Once) e in Tutto può cambiare (Begin Again) – il regista irlandese porta in scena una vicenda legata all’ambiente musicale. Ma stavolta sceglie di farlo dal punto di vista di un gruppo di adolescenti di Dublino, arricchendo quindi il tutto con – indubbiamente – un’abbondante dose di ricordi, di nostalgie e di tratti autobiografici.
Conor, detto Cosmo (Ferdia Walsh-Peelo) è infatti un ragazzino che vive in un’Irlanda in crisi, all’interno di una famiglia altrettanto in crisi: le grida e le liti dei genitori (Aidan Gillen e Maria Doyle Kennedy), incastrati in un matrimonio infelice e che solo il divorzio – non ancora approvato in patria – potrebbe liberare, sono una costante sonora, spesso coperta dalla musica dei grandi gruppi del tempo, dai Mötorhead, ai Duran Duran, ai Cure. Ed è proprio la crisi finanziaria a costringere Conor a trasferirsi da una scuola privata ed elitaria, ad una popolare, gestita dai preti, e a dare il via al grande cambiamento della sua vita. Qui infatti conosce Raphina (Lucy Boynton) e, nel tentativo di far colpo su di lei, fonda una band con alcuni stravaganti compagni e amici.
Il gruppo, che si autodefinisce futurista e si rivede nel Marty McFly del primo Ritorno al futuro, catapultato negli anni ‘50 e portavoce di una musica ancora là dall’essere inventata, farà di una scusa di conquista un grande sogno. E così, mentre Raphina, col suo desiderio di fare la modella e il suo passato complicato, diventerà la musa della band, i ragazzi si dedicheranno alla ricerca di una propria identità. Musicale e esistenziale. Scimmiottando quel che passa su Mtv, attraversando fasi pop e altre “felice-triste” (qualunque cosa – e nemmeno a loro stessi è ben chiaro – questo possa significare), scriveranno canzoni che parlano del loro dolore e dei loro desideri (inediti curati da Gary Clark e John Carney). Brani che, riscuotendo apprezzamenti, finiranno per farli sognare un ingaggio a Londra e, al contempo, insegneranno loro il grande valore della musica: quello di saper essere linguaggio, interpretazione di uno stato d’animo, trasmissione di un sentimento, coinvolgitore (e scovolgitore) di masse, portavoce impavido di ribellione al potere (in questo caso quello del Padre direttore della scuola).
Ma come scappare da una terra in cui “tutti i musicisti finiscono alcolizzati o a suonare nei posti in cui gli uomini vanno per smettere di picchiare le mogli e i figli (ovvero i pub)”? Come arrivare nella capitale del Regno, senza denaro nelle tasche? La prima risposta viene da un fratello eccezionale (e “ai fratelli di ogni luogo” è dedicato il film) come quello di Conor, Brendan (Jack Reynor). Un ragazzo che ha messo da parte tutte le sue aspirazioni, che potrebbe definirsi un fallito, ma che, dopo aver “tracciato il cammino”, non ha mai smesso di spingere il fratello minore lungo un percorso di vita migliore, che punti al successo e alla libertà da quel contesto fin troppo asfittico. La seconda risposta viene invece da quello spirito proprio degli anni ‘80, dalla forza di credere nei sogni, dalla capacità di azzardare. Uno spirito che permetterà a Conor e Raphina di affrontare un viaggio tanto pericoloso quanto sconclusionato, per andare a “scovare” il giusto ingaggio a Londra.
Sing Street quindi, pur coi limiti di un cast di giovani sconosciuti alle prime armi – ma che magari, paradossalmente, si rivela anche il punto di forza, tenendo buona la descrizione che si dà dei Duran Duran nella pellicola come “dei ragazzi che non si sa ancora che strada prenderanno, ma da tenere d’occhio” – e di uno sguardo nostalgico e patinato, si fa un film che lascia l’occhio lucido a chi è stato giovane in quel decennio, e portavoce di un messaggio per chi non l’ha vissuto: osare, osare indossare un ombretto azzurro anche dopo che si è stati costretti a lavarsi il viso con la forza, e credere, credere nelle proprie possibilità, al di là dei mezzi che il contesto sembra poter offrire. Il tutto condito, com’è ovvio, da un’ottima colonna sonora.
Un ragazzo che cresce a Dublino nel corso del 1980, fugge dalla sua tesa vita familiare formando una band e trasferendosi a Londra.