Il problema non è comprendere un racconto, seguirne la narrazione e lo sviluppo nel tempo e nello spazio. Il cinema, come ha detto Nolan, ha mostrato per primo il tempo, la traiettoria degli oggetti, l’evoluzione del movimento, e così come procede naturalmente in avanti, allo stesso modo può decidere di andare in senso inverso. Che lo spettatore, abituato a principi narrativi di causa ed effetto, fatichi a star dietro a un mutamento dell’entropia di un oggetto, per cui agli occhi di chi guarda l’effetto viene prima della causa e un proiettile risale verso la pistola che l’ha sparato, è solamente una questione pratica, un fatto d'esperienza. E in effetti il cinema di Nolan punta da anni – almeno da quando ha acquisito una dimensione autoriale un poco ingombrante – ad innovare, magari ridefinire, l’esperienza del cinema, a cominciare naturalmente da quella della sala, oggi come più che mai a rischio d’estinzione: l’esperienza di una totalità audiovisiva, con l’immersione in un racconto che non sempre scorre e si dipana, ma si riavvolge e avvolge chi guarda, e le immagini che replicano movimenti circolari o raddoppiamenti, a cominciare dai palazzi di Parigi che in Inception si richiudevano l’un sull’altro o dal doppio specchio che rifletteva all’infinito il Pont de Bir-Hakeim. Ai film di Nolan bisogna lasciare il tempo necessario per spiegarsi da sé, per giustificare ogni passaggio; magari accettando la presenza ridondante di personaggi che spiegano il perché e il percome delle cose che succedono.
Il problema, ancora, venendo a Tenet, è che al cinema non è necessario capire sempre tutto, con buona pace della verificabilità scientifica degli azzardi di fisica quantistica. L’ignoranza è la nostra salvezza, dicono continuamente nel film: per l’appunto, grazie. Al cinema – quello vecchio, quello un po’ meno vecchio, quello nuovissimo e quello che Nolan vorrebbe definire – ciò che conta è il cuore di un racconto, senza star troppo a questionare sulla narrazione lineare, invertita, raddoppiata, ripercorsa, parallela o ripetuta (e Tenet in questo fa pensare a New Rose Hotel di Ferrara, che nell’ultima mezz’ora riprendeva buona parte di quello che si era visto fino a quel momento).
Il problema, di nuovo, è il punto d’approdo: fisico, emotivo, soprattutto sentimentale. Una casa, una stanza, una scatola, un oggetto che gira (Inception); un’altra casa, un’altra stanza, una libreria (Interstellar); una settimana, un giorno, un’ora (Dunkirk); una botola, un cappello, un uccellino (The Prestige). A Tenet, nonostante l’ispirazione al quadrato del Sator e la riprese nel corso del film delle parole che lo compongono (oltre a quella del titolo, anche Arepo, Sator, Opera), manca non solo l’oggetto simbolico, l’unità spaziale e temporale che assorbe l’entropia e contiene idealmente il film stesso (idea, per altro, che già a cavallo di anni Novanta e Duemila i Coen e Lynch esemplificarono perfettamente nel movimento circolare delle palle da bowling di Il grande Lebowski e nella scatolina blu di Mulholland Drive), ma il punto d’approdo del racconto, sia fisico, con una scena finale banalmente risolta da un montaggio incrociato, sia emotivo, con la possibile storia d’amore tra il Protagonista e la moglie del super cattivo che non porta a nulla e un obiettivo finale che si rivela essere semplicemente il tentativo di disinnescare un’arma di distruzione del mondo.
Visivamente, insomma, Tenet, nonostante le due ore e mezza di durata, il ritmo incalzante, il continuo battito cardiaco delle musiche di Ludwig Göransson, le scene madri, alcune intuizioni geniali (il palazzo che nello stesso fotogramma crolla e si ricompone per effetto della “manovra a tenaglia temporale”), non riesce a riconfigurarsi, a ritrovarsi, in un’immagine che riassuma le altre. Non i buchi dei proiettili su un vetro, nonostante in più momenti siano il segnale dell’inversione temporale; non i proiettili stessi nel loro movimento al contrario (cosa che invece riusciva al Tim Burton di Big Fish, che in un pugno di popcorn immobilizzati rappresentava la materialità del tempo); non, ancora, il movimento circolare del tornello che manipola la linearità temporale, nonostante la scena notevole dei mondi paralleli separati da un vetro/schermo, esemplificazione evidente dell’idea di cinema di Nolan. In assenza di un luogo fermo, di un simbolo, Tenet prosegue inutilmente la sua corsa infinita, il continuo rimbalzo per cui ogni presente è il potenziale passato di un ipotetico futuro. Avanti e indietro, come in un palindromo.
Troppo facile, viene da pensare. La sceneggiatura dello stesso Nolan non riesce mai (e magari non vuole, visto il tono volutamente semiserio di molti dialoghi) a giustificare il continuo movimento del film, al di là dell’ardire di trattare lo spazio come il tempo (spostandosi cioè da una parte all’altra del mondo con una velocità che in ogni caso Michael Bay, pur nella sua volgarità, sfrutta in maniera più audace), le sequenze come unità isolate tenute insieme dal montaggio (i dialoghi spesso legano scene narrativamente separate da giorni e chilometri di distanza) e la compresenza di passato, presente e futuro nello stesso luogo, a volte nella stessa inquadratura, pur truccando le carte con stacchi che interrompono il flusso della visione (l’esperienza, per l’appunto) o inserendo qua e là passaggi inizialmente inspiegabili che non sfuggono però all’attenzione e a ritroso diventano i segnali della trama che si ripiega su sé stessa.
Tenet toglie non solo alla consequenzialità temporale e al nesso causa-effetto il magistero della narrazione, ma grazie alla naturalezza degli effetti e della fotografia di Hoyte Van Hoytema (che combina 35mm, 70mm e Imax, anche se molto di questo lavoro in un multiplex un tanto al chilo va perduto) combina nel movimento in avanti del film la coesistenza per noi contradditoria di più linee spaziali e temporali. Come se il racconto fosse composto di strati sovrapposti, riuniti tutti insieme da una progressione sia orizzontale sia verticale. Strabiliante, in effetti. Peccato che di tutto questo manchi la ragione d’essere, il capello a cilindro che completi la meraviglia della macchina…
A costruire film sul nulla ci avevano già pensato i Coen, qui Nolan, cancellando la sostanza della percezione del tempo, rischia di annientare il cinema.
Armato solo di una parola – Tenet – e in lotta per la sopravvivenza di tutto il mondo, il Protagonista è coinvolto in una missione attraverso il crepuscolare mondo dello spionaggio internazionale, che si svolgerà al di là del tempo reale. Non un viaggio nel tempo. Ma Inversione.