Se Cado dalle nubi, Che bella giornata, Sole a catinelle e Quo vado erano i film con Checco Zalone che costruivano sul personaggio una storia necessariamente minimalista per garantirgli una tenuta cinematografica, che al botteghino si è poi dimostrata da record, ecco che Tolo Tolo procede con cognizione di causa nella direzione della commedia (all’)italiana classica, quella dei mattatori di una volta. Premesso che Checco Zalone è un mattatore assoluto, capace cioè di costruirsi addosso figure impressionanti e politicamente scorrette di italiani mostruosi, nell’accezione risiana, con lo spessore per quel tipo di commedia che ora centra in pieno l’obiettivo. La dimostrazione che Tolo Tolo non voglia riposare sugli incassi, sicuri, è da ricercare all’interno del film stesso, con i richiami all’ignoranza del personaggio – quindi non dell’autore altro dalla rappresentazione in proprio del protagonista – rispetto ad alcuni fondamentali della storia del cinema italiano, da Roma città aperta di Roberto Rossellini a Mamma Roma di Pier Paolo Pasolini fino a Il tè nel deserto di Bernardo Bertolucci. L’approccio a questi film appare in Tolo Tolo molto corretto. Simili modelli, ben individuati e debitamente evocati, offrono chiavi interpretative assai appropriate. Per capire come funzionano occorre fare un necessario passo indietro e aprire una piccola parentesi. Su Luciano Salce, Fantozzi e Paolo Villaggio.
Cioè su Il secondo tragico Fantozzi dove lo sventurato ragionier Ugo Fantozzi, per una volta trasformandosi in un leader implacabile, e interpretando lo spirito di ribellione a oltranza verso i classici del cinema muto inflitti dai vertici dell’azienda agli impiegati, individuava altrettanti titoli, sempre tre, in quel caso tre titoli liberatori da rivedere tutti assieme senza risparmiare sadicamente il dirigente cinefilo. Anziché La corazzata Potëmkin o “Kotiomkin”, storpiando appositamente il titolo del capolavoro senza tempo di Sergej Michajlovič Ėjzenštejn, era arrivato finalmente il turno di Giovannona Coscialunga di Sergio Martino con Edwige Fenech e Pippo Franco (il cui titolo completo, sulla falsariga dei film di Lina Wertmüller dell’epoca, era Giovannona Coscialunga disonorata con onore), quindi de L’esorciccio di e con Ciccio Ingrassia, affiancato da Lino Banfi, nota parodia povera del ben più celebre e pluripremiato L’esorcista di William Friedkin, e del curioso La polizia s’incazza, film inesistente ma che alludeva ai tanti polizieschi italiani, o dispregiativamente “poliziotteschi”. Come mai Salce e Villaggio, per Fantozzi e compagni, avevano scelto due titoli sia pure pittoreschi di film veri, Giovannona Coscialunga e L’esorciccio, e uno inventato, La polizia s’incazza, quando non c’era che l’imbarazzo della scelta nel repertorio nostrano dei “poliziotteschi”? Semplicemente perché quel La polizia s’incazza chiamava in causa filologicamente proprio La corazzata Potëmkin, ovvero la celebre scena della Scalinata di Odessa dove il massacro dei rivoluzionari e dei simpatizzanti inermi era opera dei cosacchi, ovvero della “polizia” molto “incazzata” dello Zar. Insomma, a modo loro, la rivolta degli impiegati capeggiati una tantum da Fantozzi era ugualmente e a maggior ragione politica, contro il padrone che da padrone infieriva su di loro infliggendogli il capolavoro di Ėjzenštejn. Ecco, Il secondo tragico Fantozzi era un omaggio insomma a La corazzata Potëmkin, non una parodia.
Allo stesso modo Tolo Tolo è un omaggio a Roma città aperta, Mamma Roma e Il tè nel deserto. La parodia, che c’è, riguarda semmai gli italiani e non solo loro che guardano senza sapere, vanno al cinema senza studiare il valore storico dei film, di ogni categoria sociale. L’artista/intellettuale francese che realizza i suoi reportage profondi, contriti e dolenti, facendo intanto da testimonial palestrato e finto per prodotti di bellezza, è indicativo di ciò che Zalone pensa, per onestà intellettuale e profondo spirito di servizio, spirito comico, da comico e umorista in grado non solo di avvertire ma di farsi interprete del pirandelliano “sentimento del contrario”, sulla tragedia e sul genocidio in atto dei “migranti”. Il protagonista, per ignoranza e consumismo congeniti che si riflettono sugli spettatori e sulla classe politica nazionale che li rappresenta, a immagine e somiglianza, li chiama tutti così, “migranti”, riferendosi per estensione alle masse di gente invisibile e colonizzata commercialmente e culturalmente che proviene da diversi paesi africani.
Per comprendere l’Italia di oggi, e l’Europa, e il mondo occorre insomma rivedere Roma città aperta, ci dice Tolo Tolo: ritrovare il senso storico dei “panni sporchi” pregressi e/o prossimi venturi. Lo scandalo dell’Italia sotto il nazi-fascismo diventa lo spettro tentacolare dell’oggi, con “l’eterno fascismo italiano” dichiarato da Carlo Levi che si manifesta come un virus, una malattia, una possessione diabolica (mussoliniana) che va e viene, così come lo “scandalo” pasoliniano delle borgate di Mamma Roma si riallaccia a quello delle periferie odierne imbarbarite e abbandonate a se stesse, quindi al razzismo e al neofascismo di ritorno. Quanto a Il tè nel deserto, è chiaro che il riferimento, d’autore, è all’esigenza cinematografica in Italia di costruire un modello di cinema internazionale, dove lo spettacolo sia la conditio sine qua non per rivolgersi all’esterno. Bertolucci docet.
Il gioco, e con esso la sfida di Tolo Tolo, con le armi della riconoscibilità e del suo esatto contrario del personaggio consiste in questo. Con estrema disponibilità e semplicità in pratica Luca Medici/Checco Zalone ha voluto confrontarsi con la storia, intesa sia come quella appunto del cinema nazionale, senza limitarsi a cavalcarla e dominarla a suon di riscontri clamorosi al botteghino, sia con la storia attuale, recente, recentissima, ovvero con i segnali di un imbarbarimento culturale, politico e antropologico collettivo e trasversale di cui il suo personaggio di riferimento offre l’incarnazione più emblematica, eppure duttile, non chiusa e del tutto ottusa. Questa volta è il personaggio, predisposto, popolare, globale, che si cala nella storia del film e nella storia in senso lato a cui il film rimanda. Non il contrario. E non è vero che per questo in Tolo Tolo si ride di meno. Di meno? Piuttosto si ride con il film, dentro il film, alle condizioni del film e non più a prescindere dal film. La presenza di Pierfrancesco “Checco”, da Spinazzola, estremo borgo della Puglia, dell’Italia tutta, culturalmente, civilmente e moralmente molto impreparata, non è quindi subalterna al suo repertorio pregresso ma in armonia con tutto ciò che come spettatori e telespettatori sappiamo già di lui, personaggio costruito con molta precisione, e che occorre ora sottoporre a un conguaglio con il mondo.
Non che con i quattro film precedenti tutto ciò non ci fosse. Il contesto c’era, comunque, e il personaggio era un’emanazione di questo contesto. Ma la lettura veniva fatta quasi sovrapponendo una categoria interpretativa al film. L’aspetto sociologico emergeva cioè dal film, non nel film, prerogativa virtuosa invece di Tolo Tolo, che è un’operazione sottile nella sua immediatezza e nel suo non venir meno ad un rapporto diretto ed empatico con il grande pubblico. Detto altrimenti, se questo grande pubblico non ci fosse, ovvero se all’autore/attore del suo pubblico non importasse, si perderebbe di vista la strategia in tutti i sensi globale del film. A sorprendere, preliminarmente, è stato proprio il trailer strafottente e canoro che promette(va) un film diverso. Ed è stata invece la diversità del film rispetto alle previsioni indotte dal trailer – e per la verità un po’ appiccicate, di tendenza, come di consueto inevitabili in una cornice per modo di dire politica in cui ogni pretesto è buono, a discapito del testo – ciò che dovrebbe indurre a riflettere. Zalone può permettersi di giocare con le aspettative, ribaltarle nel tempo intermedio che separa l’aspettativa dall’evidenza. Può permettersi di costruire il trailer come un video musicale autonomo rispetto ad un film che non solo iscrive il suo personaggio, da riscrivere, nella cornice allargata di un mondo intero, difficile, stretto in una prospettiva di difficile risoluzione, ma fa di più: aggiunge il musical, il meta-cinema e il cartone animato al modello della commedia con mattatori/mostri assortiti emblematicamente in trasferta oltre i confini nazionali, sulla falsariga dei classici, ad esempio, di Dino e Marco Risi (Il gaucho e Nel continente nero), Ettore Scola (Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l’amico misteriosamente scomparso in Africa?), Luigi Zampa (Bello, onesto, immigrato Australia sposerebbe compaesana illibata), Luciano Salce (Sì, buana) e lo stesso Alberto Sordi regista (Finché c’è guerra c’è speranza). Il contributo di Paolo Virzì a Tolo Tolo funziona ad orologeria nella direzione di un allargamento di questo omaggio alla tradizione di cui sopra.
Il passaggio di consegne dirette, per quanto riguarda anche la regia, c’è e si sente. Le inquadrature larghe, orizzontali, inclusive incorniciano l’azione e conducono il racconto, non contengono solo l’one-man-show per motivi auto-promozionali. Lo Zalone personaggio, specchio scuro e perciò tanto più “divertente” (alla lettera, perché diverge dalla società civile e dal senso comune), si ritrova dentro un ingranaggio storico, la cui restituzione a prima vista “leggera” ed edulcorata, ai fini della commedia, in realtà viene riagganciata ad un implicito spessore drammatico attraverso lo stratagemma reiterato del musical, quindi degli sketch immaginari cantati e musicati, nonché a quello finale del cinema-nel-cinema che cede ulteriormente il passo all’animazione. Tolo Tolo non è un film menzognero, prende di punta l’esistente, non si fa illusioni, non inganna attraverso il mezzo consolatorio dello spettacolo, ma lo denuncia in quanto tale. Quindi non è soltanto un film completamente di Medici/Zalone ma un’analisi a tutto campo del paradigma istituito dai film precedenti. Il comico, che fa ancora molto ridere, forse non ha voglia di ridere guardandosi attorno. I politici che interpretano se stessi, credendo di farlo in chiave autoironica, non sono diversi dagli altri, di bassa estrazione, al di là delle differenze apparenti tra cultura sedicente alta, elitaria, incomprensibile e incultura schietta, aggressiva e orgogliosa. Cialtroni gli uni, cialtroni gli altri sembra far capire Tolo Tolo, il cui impianto provocatorio rimanda all’esemplare maggiore, mai citato e insospettabile: Lamerica di Gianni Amelio. Idealmente, nei modi di Medici/Zalone e nel secondo decennio del ventunesimo secolo, questo film è un ideale remake de Lamerica, con i migranti africani al posto degli albanesi. E dove, tra questi, si aggiunge, inserisce, mimetizza il massimo campione d’incassi e modello (inter)nazionale nel quale il pubblico riesce ad immedesimarsi: quel tale Pierfrancesco “Checco” Zalone che a questo punto, con effetto terapeutico collettivo, dovrà pur sbarcare dalla nave insieme ai suoi compagni di sventura, ieri italiani, poi albanesi, oggi africani, domani daccapo italiani. Tutti “migranti”. Sempre ammesso che uno straniero, mediamente più colto o disponibile a diventarlo, di un italiano medio (quindi basso), voglia (re)stare in Italia. Tolo Tolo non fa sconti a nessuno, nemmeno al suo ex eroe. Si interfaccia con un pubblico di massa, certo, ma per farlo partecipare ad un rito in controtendenza. Si entra bambini e si esce dal film, in compagnia di un bambino, ma adulti. Con la strana sensazione, comica, anzi umoristica, di dover urgentemente voltare pagina. Ridendo e non scherzando.
Non compreso da madre patria, Checco trova accoglienza in Africa. Ma una guerra lo costringerà a far ritorno percorrendo la tortuosa rotta dei migranti. Lui, Tolo Tolo, granello di sale in un mondo di cacao.