È un cinema di movimento quello dei fratelli Dardenne, o di pedinamento - se volete. Un cinema in cui lo spettatore viene portato per mano precisamente, senza grandi possibilità di deviazione. Un cinema che chiede empatia, prima di tutto. Lo conferma anche il loro ultimo film, Tori e Lokita, che segue le vicende di due giovani immigrati africani accolti in un centro di accoglienza in Belgio e che si fingono fratelli, necessari uno all’altro come scampolo, come idea, di quella famiglia che nessuno dei due ha più. Li seguiamo infatti passo passo nei loro continui spostamenti, sempre affaccendati, al centro come per le strade della città dove fanno gli spacciatori per un italiano che gli lascia pochi euro e, ogni tanto, aggiunge una mancia per abusare della ragazza. Il miraggio per Lokita, la promessa, è quella di ottenere i documenti che le consentano di restare accanto a Tori.
Tutto è chiaro, fin da subito, nel pieno rispetto di quell’idea di scrittura meticolosa e precisa dei registi che ha innanzitutto lo scrupolo di rendere ogni cosa esplicita sicché si possa dismettere ogni elucubrazione ulteriore e stare vicino ai personaggi cui danno corpo e volto i due attori non professionisti (bravissimo soprattutto il piccolo interprete che recita la parte di Tori, l’enfant sorcier messo al bando dalla famiglia cosi tenacemente legato alla sorella fittizia che rappresenta tutto il suo orizzonte emotivo e domestico). È una storia di domesticità negata infatti: i due ragazzi non hanno una casa e non hanno un posto in questa società, che nonostante l’evidente fragilità non si cura di loro ma, quando non li sfrutta, guarda e passa.
Le stesse istituzioni che li hanno in carico infatti non possono non attenersi alle regole e alla burocrazia a costo di negare loro l’unica possibilità che hanno: sostenersi a vicenda, accudirsi, esserci, l’uno per l’altra. Alla dimensione costretta e instabile dell’esistenza di Tori e Lokita dà forma il labirintico magazzino organizzato per la coltivazione della marijuana, in cui la ragazza viene rinchiusa senza poter comunicare con l’esterno, senza neppure sapere dove si trova. Cubicoli torridi, condotte di areazione artigianali, una celletta minuscola con una branda improvvisata come giaciglio. E un lavoro costante quello di Lokita, estenuante, un incessante sforzo per adattarsi agli spazi angusti e alla coercizione che neppure l'irruzione di Tori che con testardaggine riesce a trovarla può davvero trasformare nella conquista di un futuro, di un orizzonte, di una prospettiva.
I Dardenne continuano con coerenza il loro lavoro con questo nuovo spaccato di umanità negata, raccontando l'ennesima caduta dalla quale non è possibile rialzarsi; non riescono però a trovare il vigore della caduta del fango di Rosetta, di quella dall’impalcatura dell’operaio africano di La promessa e forse neppure la problematicità del precipitare nel vuoto di Ahmed in L’età giovane; e anche la bici sulla quale si sposta Tori (per essere più rapido nei suoi movimenti e provare a guadagnare più soldi con lo spaccio) non ha il portato simbolico del vélo del Ragazzo con la bicicletta ma resta una certezza quella di trovarsi di fronte a un film dei fratelli Dardenne, dove - come sempre - è la presa di coscienza bressoniana di una società mossa unicamente dagli interessi economici a fare da motore alla narrazione e al pedinamento.
Un bambino e una ragazza adolescente hanno affrontato da soli un difficile viaggio per lasciare l’Africa e arrivare in Belgio. Qui, possono fare affidamento solo sulla loro profonda amicizia contro le difficoltà dell’esilio.