In una terra nata e cresciuta come una democrazia, una dinastia può nascere solamente da un elemento concreto, materiale, non dal sangue o dall’investitura divina. Jean Paul Getty I è l’imperatore di un mondo costruito con il suo denaro, e che dal denaro discende. Suo figlio John Paul Getty II, esiliato a San Francisco a condurre una vita borghese, diventa erede nel momento in cui comincia a lavorare per la compagnia petrolifera di famiglia (a Roma, nei primi anni Settanta), mentre suo nipote Paul Getty III smette di essere un membro della famiglia quando, per liberarlo dagli uomini che lo hanno rapito, è necessario il pagamento di un riscatto: uno scambio di denaro estraneo ad alcun sistema d’affari, uno scambio che non è un investimento.
J. Paul Getty I concepisce la ricchezza come un continuo movimento, una continua conquista: vede il denaro dove gli altri vedono il deserto, usa i milioni che non spende per il nipote per acquistare pezzi d’arte, passa le giornate a farsi scorrere fra le dita le strisce di carta che registrano l’andamento del prezzo del petrolio. E quella carta, dalla villa inglese in cui si è autorecluso, è l’unica cosa che J. Paul Getty I tocca.
L’uomo più ricco del mondo osserva, delega, usa come scudo i suoi avvocati, comanda a distanza un mondo che cronologicamente viene prima degli anni Ottanta di Wall Strett, della finanza creativa e dei giochi a “somma zero” di Gordon Gekko, e che dunque, in un’era remota del capitalismo, del denaro contante, e degli oggetti che col denaro contante si possono comprare, ha ancora bisogno. Chiunque al di sotto di Getty tiene fra le mani i suoi soldi o le sue opere d’arte, vere o fasulle che siano: le banconote del riscatto, toccate dai commessi di banca per trasformare i dollari in lira e poi contate una per una dalle donne dell’ndrangheta, sono la forma concreta e svilita del suo potere. Così come i pezzi della sua collezione sono opere d'arte private di bellezza, ridotte a mero investimento: pezzi da non mostrare in pubblico, pezzi che fanno scattare l'allarme anche quando li si stacca dalle proprie pareti. A contare non l’oggetto in sé, fosse anche la vita di un nipote: a contare è la transazione, la reificazione dell’oggetto attraverso il denaro.
Per questo il rapimento di Paul Getty III, fatto di cronaca dell’Italia dei primi anni Settanta, è l’evento che sfugge alla catena d’affari di Paul Getty I e alla logica del capitalismo. La vita del ragazzo ha un valore puramente affettivo, non effettivo, e dunque non può essere inserita in alcuna contrattazione. I 17 milioni di dollari richiesti dai rapitori non sono troppi. Sono semplicemente 17 milioni di dollari di troppo. L’invio a un giornale dell’orecchio mozzato del ragazzo fu per davvero il fatto che spinse la famiglia Getty a pagare il riscatto, ma nel film è qualcos’altro a portare alla decisione: è l’ammissione da parte di Paul Getty I di non possedere il nipote, di non disporre della sua carne. «Suo figlio è sua proprietà», dice riferendosi all'ex nuora nel momento in cui cede alla richiesta di denaro. E prima ancora, quando i fogli del giornale che reca in prima prima pagina la foto del nipote lo colpiscono spinti dal vento, è la stessa carta di cui sono fatti i soldi e i nastri della telescrivente a rivoltarglisi contro…
È strano, di fronte a Tutti i soldi del mondo e ai problemi seguiti alla decisione di eliminare dal cast Kevin Spacey e di rigirare ex novo intere scene, accorgersi che la sola cosa interessante del film è proprio la presenza di Christopher Plummer, la sua figura elegante e feroce trasformata in una statua impassibile della mostruosità del capitalismo. Il suo Paul Getty I è un imperatore dal cuore livido come la luce del film, è il capostipite di una dinastia per la quale il denaro è condizione d’esistenza e condanna. Nella vita vera i Getty, che John Pearson, l'autore del romanzo da cui è tratto il film, definisce painfully rich, “dolorosamente ricchi”, ebbero un destino molto più amaro di quello che il film fa intuire o tace del tutto. Nella logica del racconto, però, l’eredità di centinaia di opere d’arte da registrare e poi riunire in un museo rappresentano in forma concreta il peso ingombrante di una discendenza subita e non richiesta, per quanto sfruttata. Invece di un pezzo mancante, viene sottolineata la paradossale presenza di un pezzo in più: la statua senza valore dello stesso J. Paul Getty I, trasformato dall'ossessione di perdere la propria ricchezza in un oggetto fra gli oggetti, nella pacchiana e stupida vittoria della materia sul nulla non quantificabile della morte.
Roma, 1973. Alcuni uomini mascherati rapiscono un ragazzo adolescente di nome Paul Getty III, nipote del magnate del petrolio Jean Paul Getty, noto per essere l’uomo più ricco al mondo e al tempo stesso il più avido. Il rapimento del nipote preferito, infatti, non è per lui ragione sufficientemente valida per rinunciare a parte delle sue fortune, tanto da costringere la madre del ragazzo Gai e l’uomo della sicurezza Fletcher Chace a una sfrenata corsa contro il tempo per raccogliere i soldi, pagare il riscatto e riabbracciare finalmente il giovane Paul.