Uno dei ritorni più attesi delle ultime stagioni: ventitré anni dopo Il ladro e l’arcobaleno, il poliedrico Alejandro Jodorowsky (cartomante, poeta, psicomago, filosofo, fumettista, attore e… regista) ha ripreso il suo posto dietro la macchina da presa per ripercorrere la propria infanzia e rivisitare, con occhi da adulto, la controversa figura del padre, in una sorta di dolceamaro Amarcord.
La danza della realtà porta con sé una ventata di malinconica follia. Incapace di prendere le distanze da una nostalgia autobiografica profonda e dolente, il regista si racconta bambino in un Cile sempre più tormentato.
Il padre, Jaime (non a caso interpretato dal figlio di Jodorowsky, che incarna quindi suo nonno), vuole estirpare dalla testa di Alejandro ogni fantasticheria mistica, ogni vaneggiamento filosofico, ogni briciola di incanto verso un mondo talvolta inspiegabilmente crudele ma, in fondo, meraviglioso. La madre, all’opposto, sa esprimersi solo cantando: simboleggia quella delicata ricerca di armonia con il cosmo che Jaime tanto teme e avversa.
Presentato all’interno della Quinzaine des Réalisateurs del 66° Festival di Cannes e nella sezione After Hours del Torino Film Festival 2013, La danza della realtà si presenta come una sorta di Tree of Life dal sapore surreale e grottesco, dove la brutalità della natura (il padre) e l’impalpabilità della grazia (la madre) si scontrano e danzano in un balletto decisamente più macabro rispetto a quello del film di Terrence Malick.
Dopo un incipit vivace ed emozionate, magico come buona parte dell’attività di Jodorowsky, il film ha alcuni cali quando l’attenzione si sposta sulla vicenda politicamente complessa di Jaime, che procede parallelamente alla difficile storia del Cile. Decisamente prolisso, La danza della realtà ha però diversi pregi, nell’efficace caratterizzazione dei personaggi – spesso fantasmatici – e in alcune sequenze toccanti e fin commoventi, sempre più frequenti con l’approssimarsi della conclusione.
Quello però che davvero colpisce è la capacità (e il coraggio) dell’autore de La montagna sacra di mettere a nudo se stesso e la sua famiglia con una delicatezza di tocco disarmante. Il risultato è in parte autoreferenziale, ma la sensazione è quella di trovarsi di fronte a un’opera-testamento, sulla vita e sul cinema del regista, che non può lasciare indifferenti. In un certo senso, sembra di spiare dal buco della serratura, ma l’infanzia di un “grande vecchio” come Jodorowsky merita di essere scoperta. Anche a costo di dover origliare.
L'autobiografia immaginaria di Alejandro Jodorowsky.