Giunto nelle sale italiane dopo il successo alla 65a Berlinale dove ha conquistato l'Orso d'argento, Victoria di Sebastian Schipper si dimostra uno dei casi cinematografici più interessanti di questa stagione, riuscito compendio teorico-stilistico di storia della settima arte e accattivante narrazione di genere.
Cinema della realtà artefatta, il film si compone di un solo pianosequenza, un’unica ininterrotta ripresa di oltre due ore che racchiude la notte berlinese della giovane protagonista, avvicinata da un gruppo di coetanei e coinvolta in una serie di eventi uno conseguenza dell’altro, concatenazione perfetta di caso e destino abbozzata dal regista in dodici pagine di sceneggiatura.
Ma ciò che si presenta come un esercizio di stile, si rivela invece una scelta artistica coraggiosa quanto necessaria. Non staccare mai lo sguardo dall’oggetto del racconto costringe a un’attenzione inattesa, portando lo spettatore a una partecipazione emotiva oltre che cognitiva, quasi fosse esso stesso uno dei protagonisti dell’azione, presente e indifeso davanti agli accadimenti quanto i personaggi sullo schermo.
In tempi di ricerca di un aumentato realismo sensoriale attraverso apparecchiature ed effetti speciali, la scelta di Schipper va quasi controcorrente, facendo tesoro del passato in prospettiva di un suo aggiornamento. Rielaborando alcuni concetti e intuizioni del neorealismo zavattiniano, della Nouvelle Vague francese e del Dogma 95 di Von Trier, il cineasta sviluppa un’idea filmica affascinante pur se non innovativa, espressione di un cinema che – giunto ormai a una saturazione tecnica – torna a lavorare sullo stile come veicolo primario, non al servizio della narrazione, bensì sua controparte nel processo diegetico. Lontana dai ritmi frenetici dei montaggi digitali, la fluidità dell’inquadratura continua dell’operatore Sturla Brandth Grøvlen fa del racconto il pretesto per una descrizione visiva di un arco temporale sospesa tra cinema verité e cinema underground, che rifiuta il manierismo fine a se stesso. Il film di Schipper è cinema all’ennesima potenza, estremizzazione del principio stesso dell’immagine in movimento che viene così a superare la finzione della messa in scena, quasi fosse un documentario o un’opera sperimentale.
Il travalicamento dei rigidi steccati tipologici rende allora Victoria ben più significativo di quanto appaia: né divertissement né bizzarria, ma gesto artistico che apre una nuova strada all’aggiornamento del mezzo cinematografico, non attraverso l’ipertrofico potenziamento dei suoi apparati, ma con una revisione del proprio linguaggio. Un gesto intellettuale la cui effettiva portata potrà essere valutata solo a posteriori.
Victoria è un aragazza di Madrid che si è trasferita a Berlino. Non ha amici. Una notte, all'uscita di un locale conosce una gruppo di ragazzi e comincia a flirtare con uno di loro. La loro notte insieme si rivelerà più imprevedibile e perciolosa di quanto potesse immaginare.