E venne finalmente il giorno della battaglia finale. Per la precisione, 45 minuti di battaglia finale, che se aggiungiamo l'arrivo degli eserciti e il traccheggiamento pre-bellico diventano 90. Quasi una cronaca in diretta. Eserciti schierati in campo lungo e lunghissimo, lame che vibrano in primo e primissimo piano, Elfi e Nani, Umani e Orchi, mostri giganteschi e animali formato fantasy, tutto ciò che il repertorio può offrire tradizionalmente all'amante del genere.
Il primo problema de Lo Hobbit forse sta proprio qui, nella “tradizione” (iconografica, narrativa, cinematografica): Peter Jackson, che in questa seconda trilogia ha mostrato una singolare mancanza di ispirazione – lo scrive chi ha molto ammirato anche il suo King Kong oltre a Il Signore degli Anelli (non Amabili resti, non esageriamo) – si adagia sul già detto e il già visto contando solo sulle magnifiche (?) e munifiche virtù del gigantismo, nei paesaggi, nelle creazioni digitali, nelle passioni elementari, nella parole gonfie di retorica.
Ed ecco il secondo problema: così come il re dei Nani Thorin dimentica chi è, accecato dal tesoro, dalla maledizione dell'oro, Peter Jackson si lascia travolgere dalla sua ossessione descrittiva, se ne frega beatamente dei fondamentali del cinema, applicati col pilota automatico, per dedicarsi quasi esclusivamente alla sua mania illustrativa, in cui sta il meglio (e il peggio, il noioso) di questo terzo capitolo.
Alla fine, purtroppo, poco ci importa dell'amore proibito tra l'Elfa e il Nano (che tanto aveva fatto arrabbiare i puristi tolkeniani), non ci addolorano la follia di Thorin e la delusione dei suoi compagni di avventura, non ci esalta l'eroismo di Bard, che riesce a uccidere il drago Smaug nel prologo promettente, non ci diverte più il fragile umile basito Bilbo Baggins (che peraltro cade svenuto per buona parte del film). Esaurita la possibilità di emozionarsi o sorprendersi, dovrebbe rimanere lo stupore per la potenza dell'impresa, ma arrivati al terzo capitolo, anzi al sesto, anche quello rischia di ridursi a un grande sbadiglio.
Tutto ciò che ne Il Signore degli Anelli ci aveva esaltato – l'inno alla meraviglia cinematografica, la concezione rivoluzionaria del kolossal, i personaggi-archetipi con le loro gesta esemplari ma credibili e le emozioni basilari ma potenti, il realismo fantastico lirico e inquietante, la capacità di (ri)creare un mondo - qui riappare in una forma sbiadita, depotenziata, stanca. Un vero peccato, visto il talento di Peter Jackson. Qualcuno lo liberi dall'incantesimo.
Dopo aver recuperato la loro patria dal Drago Smaug, la Compagnia scatena involontariamente una forza mortale nel mondo. Infuriato, Smaug riversa la sua ira focosa sulla gente indifesa, donne e bambini di Ponte Lagolungo. Ossessionato soprattutto dal recupero del suo tesoro, Thorin sacrifica amicizia e onore mentre i tentativi frenetici di Bilbo di farlo tornare alla ragione guidano lo Hobbit verso una scelta disperata e pericolosa. Ma pericoli ancora maggiori li attendono più avanti.