Ada è una giovane donna che vive a Muzir, città desolata nell’Ossezia del Nord, repubblica del Caucaso nella Russia meridionale. Lavora in un piccolo negozio e sogna la fuga dall’abbraccio soffocante del padre Azur, rimasto vedovo, che vorrebbe tenerla chiusa in una gabbia: niente ragazzi, niente appuntamenti, niente profumi.
Il film della giovane regista russa Kira Kovalenko, originaria dei luoghi in cui si svolge la storia, svela lentamente l’identità frammentata della protagonista e il segreto doloroso che porta con sé.
Chi è davvero Ada? Troppe cose insieme e quindi nessuna: una figlia intrappolata in una condizione infantile (indossa un pannolone a causa dell’incontinenza urinaria legata a un trauma vissuto da bambina); una moglie che deve occuparsi della cucina e delle faccende domestiche; una sorella ma anche una madre nei confronti del fratellino Dakko, ragazzo dall’animo fanciullesco e selvatico. Perfino l’identità femminile di Ada è messa in dubbio: «con questi capelli corti sembri un maschio», le dice il fratello maggiore Akim, appena tornato dalla città di Rostov, dove si era trasferito per lavoro.
Sin dal piano sequenza iniziale la camera a mano insegue la protagonista, sul ciglio della strada, in attesa di qualcuno o di qualcosa, costretta in una realtà ostile dove anche il sesso è un’esperienza deprimente, e dove tutti cercano di afferrarla e tenerla ferma: il padre, che non vuole lasciarla andare; uno spasimante, mentre tenta di fare l’amore con lei; Dakko, che di notte si infila nel suo letto per dormire avvinghiato alla sorella; Akim, che la stringe a sé in un ballo disperato, e vuole aiutarla a salvarsi.
Il senso di tensione costante attorno ad Ada, alimentato dall’uso efficace del fuori campo, esplode in alcuni momenti drammaticamente potenti, e trova il suo culmine quando viene rivelata la violenza subita nella sua infanzia dalla protagonista, che ne mostra i terribili segni sul corpo: le cicatrici di una ferita causata da un attacco terroristico dei separatisti ceceni (il riferimento è alla strage della scuola di Beslan, avvenuta nel 2004). Una ferita profonda che necessita di nuove cure accessibili solo altrove, e che rende Ada il simbolo di un popolo lacerato e oppresso.
La regia di Kovalenko rivela un indubbio talento nel modo di combinare primi piani e ambienti, e di stare addosso ai personaggi, pedinandoli secondo un’estetica che evoca quella neorealista; non a caso De Sica è citato dall’autrice come uno dei suoi modelli, assieme al Bellocchio eversivo de I pugni in tasca, omaggiato dal titolo internazionale del film: Unclenching the Fists, “aprire i pugni”. Ma si nota soprattutto l’influenza di Tesnota, il folgorante esordio del regista Kantemir Balagov (che della regista è il compagno), presentato qualche anno fa a Cannes nella sezione Un Certain Regard, la stessa in cui Ada è stato premiato nel 2021. Peraltro, Kovalenko e Bagalov, prima compagni e allievi nella scuola di cinema di Aleksandr Sokurov, oggi sono anche fidanzati ed esuli negli Stati Uniti, e difficilmente potranno tornare a girare in Russia finché ci sarà Putin al potere.
Il personaggio di Ada (impreziosito dall’intensa interpretazione dell’attrice Milana Aguzanova) ricorda molto quello di Ilana, protagonista di Tesnota e altra figura femminile in lotta contro una prigionia familiare e sociale. Al film di Kovalenko, tuttavia, manca l’esattezza dello sguardo presente in Balagov, con il rischio talvolta di far deragliare la narrazione. Come nel finale, in cui quel mondo chiuso e opprimente, spesso ripreso dal finestrino di una macchina, può finalmente aprirsi in una fuga in moto spezzettata dal montaggio, tanto liberatoria e suggestiva quanto confusa e incerta.
Ossezia, Causaso del Nord. Zaur, uomo e padre severo, si è trasferito insieme ai figli Ada, Akim e Dakko a Mizur, in una piccola e sperduta cittadina mineraria. In bilico tra le indecisioni sul futuro dei figli e la rigidità dell’uomo la vita scorre non senza difficoltà. Il ritorno del primogenito, precedentemente fuggito dal padre per lavorare a Rostov, riporterà alla luce i traumi inespressi che hanno coinvolto la famiglia.