Per Nadav Lapid ogni film è una questione esistenziale, un terreno di confronto con la propria identità di artista, di regista, di israeliano, di figlio. Sua madre Era Lapid, montatrice di tutti i suoi film, è morta nel 2018 durante la postproduzione di Synonimes, il suo film precedente, Orso d’oro a Berlino nel 2019, che già affrontava la sofferenza di un ragazzo senza patria, famiglia e lingua, cocciutamente deciso a interagire con la realtà in termini di traduzione e adattamento.
Ahed’s Knee, che di Synonimes è una derivazione e una filiazione in patria, è stato scritto durante la malattia della madre, e della solitudine di un figlio senza più appigli, ma ancora pieno di idee, di film da fare, di storie da raccontare, ne porta i segni, la rabbia, la frustrazione, l’agitazione.
Anche nel dolore che sembra aver preso il sopravvento sulla sua creatività, trasformando i suoi film in tranche-de-vie in cui l’autobiografia sconfina nel delirio solipsistico e onirico, Lapid resta aggrappato all’idea di un cinema aperto, personale e con l’ambizione all’universalità; un regno di possibilità che comprende il passato (i film fatti e mostrati), il presente (un nuovo film da girare) e il futuro (tutti i film di domani da pensare e realizzare).
Protagonista di Ahed’s Knee è Y., un regista dalla discreta fama internazionale chiamato da una dirigente del ministero della cultura a presentare un suo film in un remoto villaggio nel deserto. L’uomo è alle prese con il casting di un nuovo lavoro dedicato ad Ahed Tamimi, l’attivista palestinese diventata simbolo dei diritti umani, e nel frattempo gira piccoli video che manda alla madre, malata di tumore in fase terminale. È nervoso, scontento, aggressivo, e quando arriva nel villaggio comincia un gioco di seduzione e scontro con la giovane rappresentante del ministero, ingenua rappresentante dello stato.
Y. è chiaramente Lapid, ma in Ahed’s Knee la presenza del regista non è tanto nella figura di un alter ego (consueta e pure banale), quanto nell’evidenza dei movimenti di macchina, nelle gocce d’acqua che nella prima sequenza increspano l’inquadratura fingendo una soggettiva che soggettiva non è, negli stacchi di montaggio violenti e gratuiti, nelle continue panoramiche a schiaffo che portano continuamente fuori dall’inquadratura, a destra e a sinistra dei personaggi, fuori e dentro le situazioni, sulla terra e verso il cielo, come se nel film che si sta vedendo esistessero altri possibili e infiniti film; come se Lapid stesso, in crisi, solo, senza più la madre a dare ritmo e forma alle sue creazioni, cercasse altre forme di racconto, d’invenzione, di sguardo sulla realtà.
In Ahed’s Knee c’è tutto ciò che un regista legato al proprio mondo, alla propria famiglia, al proprio paese, pensa e dice del proprio mondo, della propria famiglia, del proprio paese. E come in Synonimes, in maniera più letterale ma più lucida, meno compiaciuta e più autentica, Lapid non le manda a dire, definisce Israele un paese che non riconosce l’arte perché non riconosce la bellezza e se da regista celebre e privilegiato si sente libero di accusare il potere, da uomo e da figlio si abbandona impudicamente al dolore, dando al suo alter ego l’occasione di piangere sconsolato in un finale assolutorio che stride con l’isteria del film, ma è forse un’altra possibile fuga da una situazione senza fine.
Durante il racconto di un episodio avvenuto durante il servizio militare (una storia di machismo militarista che riprende episodi analoghi racconti in Synonimes), Y. fa capire come il tallone di Achille di ogni finzione sia la realtà stessa: «la lentezza della verità», dice, una dimensione che possiede tempi e modi inavvicinabili. Se però la realtà resta inafferrabile, ciò non significa che il regista – un qualsiasi regista, e prima ancora un qualsiasi uomo o donna che appartenga al proprio mondo, alla propria famiglia, al proprio paese – debba rinunciare a trovare un luogo da cui osservare le cose, una propria posizione. Il regista è quindi colui che vive in prima persona una storia, colui che la osserva o colui che la manipola, come se fosse un demone?
Nel dubbio, Lapid chiude il film riprendendo dall’alto la terra d’Israele, provando per un attimo ad assumere il punto di vista – ovviamente illusorio – di Dio.
Un regista israeliano si getta nel mezzo di due battaglie destinate a fallire: una contro la morte della libertà, l'altra contro la morte di una madre.