Per ricordare Goffredo, ahinoi commemorare, verbo che non avremmo mai voluto adoperare neanche tra cent'anni, occorrerebbe un volume, non un articolo. Ma l'impresa diventa sostenibile se per l'occasione triste della scomparsa a ottantotto anni di Goffredo Fofi si aggira l'ostacolo del "coccodrillo" e si punta con effetto attivo e non retroattivo sulla categoria a lui congeniale del “no” assoluto, nelle condizioni possibili: quella che delinea in modo netto la posizione assunta da Goffredo nell’arco di una lunghissima carriera di polemista sociale e culturale. In lui, come sa chi lo ha conosciuto bene, il verbo litigare ha preso affettuosamente e vigorosamente il posto di discutere nella fisiologica battaglia per una cultura e quindi un cinema non compromessi da quella medietà che resta di certo il sintomo più preoccupante tra modelli alti e bassi. Perciò il suo ormai ultimo “Il cinema dei no” edito da Elèuthera, cioè nella nuova edizione del 2024, integrata con aggiunte importanti: ecco, come ogni tassello chiave della sua vasta produzione, anche questo è un “calepino”; nel senso in cui lo intendeva Leonardo Sciascia in “Una storia semplice". Riprendiamo qui qui cose già estese in un articolo dello scorso novembre, con l'intenzione già allora di riconoscere i meriti ai viventi, prima che la "compresenza", come la chiamava Aldo Capitini, intellettuale a lui caro, lo intercettasse dall'altra parte. Dunque manterremo in questa circostanza anche il tempo presente, perché parlare di Goffredo Fofi esclusivamente al passato sarebbe un errore intellettuale e civile inaccettabile.
Goffredo nei suoi interventi dunque privilegia(va) un discorso di sintesi paradossale, dove le dimensioni del volume risultano inversamente proporzionali al peso definitivo delle questioni messe in campo, in questo caso dal e sul cinema minoritario nel suo ostinato e autorevole diniego. In Goffredo Fofi, che da tempo riconosce(va) a Sciascia il posto dei maestri e lo chiama in causa per primo sul fronte storico-letterario e intellettuale nazionale, la dimensione autobiografica era, o per meglio dire è inseparabile dalla riflessione ad ampio spettro. E questa progressiva rarefazione di un discorso che prende le mosse da lontano corrisponde a un bisogno oltremodo maturo, di non perdere e far perdere la barra diritta su due concetti fondamentali che ne “Il cinema dei no” implicano l’ambito cinematografico ma sono imprescindibili a monte: la prassi non corriva e corrente del modello anarchico di pensiero costruttivo e di rifiuto organico dell’esistente, e quella che Colin Ward definisce la “disperazione creativa”. Se si cerca ne “Il cinema dei no” una tabella di modelli d’autore, è chiaro che c’è, ma dopo che Fofi ha chiarito come arrivarci, per cerchi concentrici di passaggi importanti e trasversali. Non è un caso che una delle sue pregresse e più belle raccolte di contributi recasse come titolo paradigmatico “Prima il pane”, in segno di una necessità profonda di ricominciare da ciò che conta davvero, “contro il facile companatico”. L’elenco di ritratti, con un taglio geografico di richiami, dunque arriva, a pagina 45, con il capitolo “Autori e opere”, laddove Goffredo stesso riconosce in più punti essere approssimativo per difetto, ma non per dimenticanza quanto per priorità assegnata alla rappresentatività. Ed è in questa prospettiva aperta che il libro non si chiude su chi ha già dato, ma prosegue, con un paragrafo intitolato “Continua…”, i cui puntini di sospensione assumono un valore pari a quello di “Una storia semplice” con la frase lasciata interrotta dalla vittima: “Ho trovato”, seguito da un punto incomprensibile. In Goffredo Fofi, questo principio/fine del testo e quindi del viaggio nel cuore dei no della sua vita di spettatore e critico assume, al presente/compresente, valenza di un sì ragionato e ammonitore, disperato nella sua creatività. Il suo insegnamento, come l'ultimo paragrafo di cui sopra "continua", appunto o forse comincia ora.