Ethan Coen

Honey Don't

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Honey Don’t! è un film che si vede con un senso di stringente nostalgia. Non tanto per il suo look fintamente 70s evocato dalla fotografia polverosa e cartolinesca di Ari Wegner o per le mise perennemente rétro della private eye Honey O’Donohue (Margaret Qualley), quanto per quell’impressione di svago incompiuto che hanno i film di Ethan Coen da quando ha deciso di separarsi dal fratello. La stringente nostalgia è riferita alla speranza che tornino insieme, di nuovo. Perché, dal momento della separazione avvenuta per trovare nuovi stimoli, scelta fin troppo lecita e comprensibile dopo trentacinque anni da inseparabili, il saldo di Ethan è sicuramente negativo.

Dopo un filmetto da drive in come Drive-Away Dolls, la collaborazione con la moglie Tricia Cooke sancisce per Ethan l’ingresso in un universo esclusivamente femminile tramite un noir in disguise, che della narrazione poliziesca ha le cadenze e le prerogative, anche se le movenze sono talmente sinuose, come quelle di Margaret Qualley inquadrata spesso da dietro al ritmo ossessivo dei suoi tacchi a spillo, da non risultare sempre convergenti con le logiche chirurgiche previste da questo genere di racconto. L’indagine, infatti, è solo un involucro, la forma esteriore di una visione che si premura, anche con qualche presunzione, di sfociare in un’allegoria fin troppo chiara e insistita, talvolta ripetitiva, spesso fuori fuoco. Il pretesto è la morte in un incidente stradale di una donna che il giorno precedente aveva contattato la detective con i tacchi a spillo, la quale da subito sospetta, grazie anche alla conferma autoptica delle ferite rilevate sul corpo, che la donna potrebbe essere stata uccisa. Il caso si lega alla presenza di una congregazione guidata dal reverendo Drew Devlin (Chris Evans), pronto a plagiare e sottomettere i fedeli sotto la sferza del dominio sessuale (è un caso che negli Stati Uniti contemporanei questo sia un ruolo assegnato all’ex Capitan America? Probabilmente no, ma anche se lo fosse è ugualmente sintomatico, come pulsione soggiacente).

La sceneggiatura procede con le due linee in parallelo, che però restano tali. Si avvicinano ma (spoiler) non giungono a confluire in un unico punto d’indagine: lo scopo è soddisfare un giustizialismo di gender, non la ricomposizione legale degli equilibri. Il noir assolato del film è solo un travestimento, uno specchietto per le allodole pretestuoso per rendere allegorico il vero senso dell’operazione, che altro non è se non un attacco frontale dato per accumulo alla logica patriarcale degli Stati Uniti nell’era Trump. L’universo femminile tratteggiato da Ethan Coen e Tricia Cooke è un universo conchiuso esclusivo costantemente minacciato dall’elemento maschile, spesso assente e, quando presente, minaccioso, violento, fallocratico, manipolatorio, oppure, nella versione più farsesca, incarnata dal detective Marty Metakawitch (Charlie Day), insistente adescatore che non contempla la dichiarazione di omosessualità della protagonista se non come una battuta di spirito, impossibile da prendere sul serio con i soliti parametri di pensiero.

Un contesto stolido e brutale in cui il genere poliziesco è solo la chiave di lettura di una società, più che una scelta di narrazione. E infatti come noir funziona a intermittenza, alternando scene di grande impatto visivo che ricordano i momenti migliori del passato come Blood Simple o Non è un paese per vecchi (l’agguato domestico al personaggio di Hector, in cui la tensione dilatoria è poi erosa da un’ironica violenza splatter) e picchi improvvisi e logicamente ingiustificati (come la rivelazione finale dei crimini, gestita oltretutto male sul piano della regia, con piani troppo ampi per essere davvero drammatici, ed eccessiva sul piano della recitazione, enfatica e spiritata). Secondo questa prospettiva, l’impressione fino all’ultima scena, subito prima dei titoli di coda, è che la sceneggiatura non si chiuda, che alcuni elementi non tornino e che ci si sia dimenticati della chiesa del viscido reverendo Chris Evans. Dopo l’ultima scena, invece, il progetto conferma definitivamente il suo assunto: il crimine di cui parla Honey Don’t! non appartiene alla cruda dinamica degli eventi, quanto all’assetto di una società in cui l’auspicio è che il maschio svanisca nella sua supposta essenzialità. Il vero delitto è il patriarcato: l’intreccio non amplia la sua portata, troncando lo scavo nelle varie colpe e non punendo tutti i numerosi assassini. Il pur legittimo manifesto di rivendicazione femminile proposto da Ethan Coen appare più programmatico che ispirato, più preoccupato di costruire la perfezione della sua tesi che di giocare con le possibilità offerte dal cinema, come invece nei trentacinque anni precedenti con il fratello ha sempre fatto.


 

Honey Don't
USA, Gran Bretagna, 2025, 90'
Titolo originale:
id.
Regia:
Ethan Coen
Sceneggiatura:
Ethan Coen, Tricia Cooke
Fotografia:
Ari Wegner
Musica:
Carter Burwell
Cast:
Margaret Qualley, Aubrey Plaza, Chris Evans, Lena Hall, Charlie Day, Kristen Connolly, Don Swayze, Billy Eichner, Lera Abova, Talia Ryder, Gregg Binkley, Christian Antidormi, Kinna McInroe
Produzione:
Focus Features, Working Title Films
Distribuzione:
Universal Pictures

L'incidente mortale (e affatto accidentale) di una coppia di Bakersfield (California), attira l'attenzione della detective Honey O'Donahue, che finisce per indagare su una setta devota a padre Dean, pastore carismatico e criminale, col vizio del sesso e della manipolazione. Nella vita di Honey, intanto, irrompono un vecchio padre, a cui non perdona un'infanzia di abusi, e una poliziotta, con cui comincia una torrida relazione.

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