Robert Redford: la bellezza, l'equilibrio, l'energia

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Robert Redford, morto lo scorso 16 settembre a 89 anni, ha fatto parte di quella generazione di star di Hollywood che non moriranno mai e che mai avrebbero dovuto morire. Di lui conoscevamo tutto, i capelli biondi ondulati, il fisico atletico, la figura statuaria, lo sguardo da ragazzone americano, sì, ma mai spaccone, bensì gentile, accogliente, quasi vittima della sua bellezza se non ne fosse stato così consapevole. Con una crudeltà sublime, Sidney Pollack, che lo ha diretto in sei film, in Come eravamo (1973) gli cucì addosso una parte che gli calzava a pennello: il ragazzo sportivo più bello e popolare del college, oggetto del desiderio di tutte le ragazze comprese quelle politicamente impegnate a sinistra, che s’innamora suo malgrado di una di loro, la più combattiva e tenace, e poi dopo tanti anni la lascia perché non riesce a star dietro al suo bisogno di giustizia e conflitto. Sfido qualsiasi spettatore al mondo a non commuoversi per lei (Barbra Streisand, ovviamente), dolce e innamorata, nella sequenza della loro prima volta, quando lui torna dalla guerra e ubriaco ci va a letto e poi il giorno dopo nemmeno se lo ricorda, tanto non la ama e mai la amerà del tutto, e alla fine per lui, quando s’incontrano per un’ultima volta e lei gli parla della figlia che hanno avuto insieme e lui non ha mai visto, e solo per un attimo sembra cedere al pianto, così intenso e così sconfitto…

Diviso tra una nuova generazione di attori meno belli e più liberi di mostrare il loro talento esplosivo (Pacino, De Niro, Hoffman, anche se quest’ultimo aveva solo un anno in meno) grazie al modo di fare cinema che in America s’impose dalla fine dei ’60, e una più vecchia di ex “giovani senza causa” che dalla metà dei ’50 avevano dato la spallata alla Hollywood classica pur restandovi legati (Marlon Brando, ovviamente, col quale nel ’66 recitò in La caccia, ma soprattutto Paul Newman, con cui tra il ’69 e il ’72 fece coppia negli epocali Butch Cassidy e La stangata), Redford ha saputo essere un volto simbolo della Nuova Hollywood e mantenere al tempo stesso una pulizia e una dolcezza da uomo di epoche precedenti, già inquiete e terminali ma forse non ancora del tutto disperate. Per questo, forse, i suoi personaggi simbolo sono Jeremiah Johnson (titolo originale di Corvo rosso non avrai il mio scalpo, 1972), che fugge dalla società alla maniera del Thoreau di Walden, e lo sceriffo Cooper di Ucciderò Willie Kid (1969, ritorno alla regia di Abraham Polonsky dopo vent’anni di ostracismo maccartista, segnale di un’anima liberal che Redford non ha mai tradito), costretto a inseguire un criminale con cui segretamente patteggia.

C’era in Redford – e lo si vede proprio nello sguardo finale di Corvo rosso, nello scontro tra la reticente tenacia del suo Bob Woodward e il nervosismo del Carl Bernstein di Hoffman in Tutti gli uomini del presidente (1976) e ancora nell’umanissimo terrore del suo personaggio in fuga in I tre giorni del condor (1975) – una sicurezza tutta americana che poggiava, però, su un mare di quieta disperazione. Il segreto, per lui così bello e seducente e insieme così comune, era l’equilibrio.

Forse per questo, lavorando con registi non del tutto autori (Roy Hill, Ritchie, Furie, in qualche modo anche Pakula), ha interpretato un aviatore spericolato (Il temerario, 1975), un politico ambizioso (Il candidato, 1972), addirittura il grande Gatsby nella versione del ’74 di Jack Clayton (ed era proprio la sua, quella bellezza che prometteva felicità e distruzione, “il futuro orgastico che anno dopo anno si ritira davanti a noi”), tutti ruoli sospesi tra l’ascesa e il crollo, e più avanti poi, a fine ’70 e al termine di un’era, personaggi fuori tempo massimo come il cowboy di Il cavaliere elettrico (1979), attorno al quale la fotografia di quel film (e anche di un altro successivo, Il migliore, 1983) disegnava un’aura dorata, come a dire che in fondo era l’ultima stella o quasi a brillare…

Negli anni ’80 Redford ancora una volta confermò e tradì la sua immagine: divenne regista con Gente comune (1980), un melodramma carico di dolore e disperazione (ma non di quella che si respirava in Toro scatenato, che sconfisse agli Oscar, più acquietata e malinconica), e poi proseguì con film non sempre eccelsi in cui si nascondeva come attore e offriva la sua visione liberal ed ecologista (Milagro, 1988; In mezzo scorre il fiume, 1992; Quiz Show, 1994, forse il suo più bello); si confermò sex symbol reticente (ancora con Pollack, in La mia Africa, 1985, che oggi nessuno si sognerebbe di girare ma a rivederlo è sempre più bello, e un’ultima volta in Havana, 1990, e poi in Proposta indecente, 1993, dove faceva quasi innamorare Demi Moore), e soprattutto fondò, già nel ’78, il Sundance Film Festival, che nell’81 si arricchì del Sundance Institute, che avrebbe dato il là alle carriere di Tarantino, Anderson, Jarmusch, Soderbergh, Aronofksy, Chazelle…

Forse il suo lasciato definitivo al cinema americano sarà proprio questo: aver saputo stare dentro l’industria e insieme dare energia all’indie, sempre che s’intenda quest’ultimo come anticamera della prima. Era un divo, del resto, Robert Redford, ma era anche uno di noi, solo un po’ più bello. Tanto più bello.