Si apre con il metallo incandescente di un altoforno, dai bagliori rosso fuoco, e con un passo dall’autobiografia di Antonio Zagari Ammazzare stanca (1992, rieditata nel 2008 e nel 2024), il film che Daniele Vicari ha ricavato dalla stessa e sottotitolato Autobiografia di un assassino, passato a Venezia Spotlight lo scorso settembre. Nella prima scena del quale si assiste all’uccisione di un uomo che stava tornando a casa in bicicletta, nei dintorni di Varese, con l’assassino (Zagari) che vomita subito dopo perché, si scoprirà, ha “schifo e ribrezzo” del sangue. Curiosa situazione e curioso personaggio, che ha in effetti suscitato la curiosità (la ripetizione è voluta) di un regista sempre “sul pezzo”, anche nella scrittura (critica e narrativa) e nella formazione, sul piano politico (Diaz) e sociale (Sole, cuore, amore ma anche il film per la TV Prima che la notte, che tra l’altro ha a che fare con la mafia); autore di film decisamente interessanti, da Velocità massima che lo portò a Venezia nel 2002 al folgorante Il passato è una terra straniera, che nel 2008 fece conoscere Elio Germano e Michele Riondino, ma anche di bellissimi documentari (La nave dolce, 2012).

L’interesse di Vicari per l’autobiografia di Zagari sta nel fatto che Antonio era il figlio maggiore del boss della ‘ndrangheta Giacomo, arrivato in Lombardia negli anni ’50 dalla piana di Gioia Tauro per dedicarsi a rapine, estorsioni e rapimenti nei quali ha sempre coinvolto anche i due figli, che considerava fondamentalmente dei sottoposti e a cui assegnava di volta in volta degli incarichi (Antonio ha “collezionato” sedici delitti). Il protagonista, però, ha sempre vissuto male tutto questo: era bravo a scuola pur avendo due genitori semianalfabeti, parlava in modo fluido l’italiano (con accento lombardo) e in carcere, la prima volta nel 1974, ha letto tantissimo (anche Pavese, da cui il titolo del suo testo) e ha cominciato a scrivere quella che sarà, appunto, la sua autobiografia di criminale, con cui nel 1990 si consegnerà alla giustizia come uno dei primissimi pentiti di mafia calabresi, portando i Carabinieri (che gli avevano dato un ultimatum, cercando in realtà suo padre) sul luogo di un rapimento che stava per compiersi. Un bandito “gentile”, marito e padre innamorato, stanco di quello che era sempre stato obbligato a fare, vittima (soprattutto) dell’ambiente di provenienza, non tanto in senso deterministico quanto per costrizione paterna (la madre, da tradizione mafiosa, non pervenuta); e sarà proprio sul padre che si consumerà la sua vendetta, perché è stato quello il rapporto che ha condizionato tutta la sua vita, come del resto quella del fratello. Senso di mancanza, insofferenza, ribellione; per cui, come ha dichiarato Teho Teardo, l’autore delle musiche, «il film ambisce anche a restituire le zone di assenza nel loro carattere [dei personaggi, n.d.r.], ciò che si potrebbe esprimere come desiderio, come qualcosa che manca», e «la musica indaga ciò che vive dentro di loro».
Purtroppo, però, queste premesse non vengono pienamente mantenute perché il film fatica ad entrare nella psicologia del protagonista, a rendere il suo travaglio e la sua voglia di riscatto (fermo restando che il desiderio di redenzione sarebbe tutto da dimostrare, dal momento che la collaborazione con le forze dell’ordine, che ha portato a un processo con 126 imputati per un totale di 520 anni di carcere e 7 ergastoli, arriva per Antonio all’ultimo momento, quando non ha altre chances da giocarsi), e tiene la ‘ndrangheta del Nord sempre sullo sfondo, inquadrandola nelle vicende familiari e nei singoli atti in cui si manifesta, rapine appunto e intimidazioni e rapimenti e delitti, più che nella sua portata storico - politica.

Ciò accade perché Vicari utilizza questa volta, contrariamente a quanto aveva fatto, per esempio, in Diaz, uno stile molto classico e tutto sommato freddo, da descrizione entomologica, rinunciando così ad entrare nella mente del protagonista, forse per evitare uno sguardo empatico nei confronti di ciò che rappresenta, e in questo modo resta in superficie, come si diceva, anche nell’inquadramento generale delle vicende che vengono raccontate. Il che è un peccato, dal momento che le premesse c’erano tutte: dai produttori, Pier Giorgio Bellocchio e Manetti bros., agli attori, tutti eccezionalmente in parte a cominciare da Gabriel Montesi, bravissimo (ma ci sono anche Vinicio Marchioni, Rocco Papaleo, Selene Caramazza, Andrea Fuorto, Thomas Trabacchi e Bellocchio stesso), alle musiche, appunto, dell’ottimo Teardo.
Un aspetto interessante che vogliamo sottolineare è il fatto che, in quegli anni, gli ‘ndranghetisti tenevano un profilo basso, per non dare nell’occhio o suscitare sospetti, per cui tutti, pur compiendo le efferatezze di cui sopra, di giorno avevano un lavoro umile, “normale”; lo stesso Antonio ha svolto vari mestieri e nel film lo si vede in fabbrica, benvoluto dall’imprenditore a cui suo padre ha rapito e ucciso il figlio.
Antonio Zagari ha poco più di vent’anni e dopo aver ucciso, rapinato, rapito, finisce in galera a metà anni ‘70. Qui incontra un desiderio mai provato prima: scrivere. Scrive di se stesso, del fratello, della propria famiglia calabrese trapiantata in Lombardia dai primi ‘50, della ferocia di suo padre che lo inchioda a un modo di vivere ineludibile, segnato nel destino di chi nasce in un determinato contesto, quello della ‘ndrangheta. Scrive della fragilità muta di sua madre, dell’amore della propria vita, e soprattutto scrive dell’uccidere che diventa via via un peso insostenibile...