“Per colpa vostra lui non mi ama più”.
“Lui” è il padre della dodicenne Dalva, incriminato per averla rapita e indotta a intraprendere una relazione incestuosa. L’amore secondo Dalva, esordio della promettente regista Emmanuelle Nicot, non è però la storia di un abuso. O meglio, questo abuso resta un sottotesto inesprimibile e inascoltabile (Dalva reagirà con violenza ai tentativi di dialogo) e viene invece delegato all’esteriorità il compito di narrarne gli effetti psicologici e il percorso di emancipazione, non lineare e doloroso.
Dalva, interpretata dalla giovanissima Zelda Samson, si trova infatti costretta a lasciare quella che per sette anni è stata la sua vita, trascorsa in isolamento con il padre che la trattava – e modellava – come sua compagna. Improvvisamente catapultata in una comunità per minori, ritiene di essere lì per errore e che il rapporto con il padre sia del tutto legittimo. Anche in sua assenza, si rifiuta di abbandonare l’identità-immagine che l’uomo ha costruito per lei e su di lei: Dalva infatti si veste, si trucca e si atteggia come una donna, non semplicemente adulta ma “di classe”, come le viene detto da uno degli ospiti più giovani della comunità. Associati al suo corpo di bambina, gli abiti eleganti, le unghie laccate e i capelli perfettamente acconciati creano una maschera grottesca che Dalva sente propria quando spiega agli educatori che lei non è una ragazza ma una donna. La performance che mette in atto è traccia visibile della sua dipendenza emotiva e insieme un comodo rifugio: preparandosi al primo (e unico) colloquio con il padre in carcere, bastano un vestito elegante, un po’ di trucco e uno sguardo alla propria immagine riflessa nello specchio per rievocare quell’identità fantasmatica che però è l’unica che conosce.
Insieme agli abiti, il padre le ha imposto anche una disturbante definizione di amore: non c’è differenza tra amare e fare l’amore, dirà alla psicologa che la segue. Ed è per questo che l’uomo, una volta ammessa la propria colpevolezza, agli occhi di lei “non la ama più”. In una vita trascorsa in segregazione con il proprio abusatore, la dimostrazione e la conquista di affetto passano inevitabilmente attraverso la disponibilità sessuale, pena il rischio di rimanere sola – paura che Dalva stessa confiderà a un educatore. In assenza dell’unico punto di riferimento che dava senso a quell’immagine di femminilità stereotipata, la conseguenza è la crisi di tale immagine: il film racconta gli effetti annichilenti della violenza mostrando l’emergere di un’autoreferenzialità nella quale la protagonista non si chiuderà ma con cui farà i conti. Questo ripiegarsi su se stessa si manifesta nell’incapacità di relazionarsi al maschile all’infuori della dimensione sessuale, ma anche nello smarrimento di fronte ad attività banali che però non ha mai svolto in autonomia, come la scelta degli abiti in un negozio – ancora una volta, è l’apparenza a raccontare gli effetti degli abusi di cui Dalva, tappandosi le orecchie, non vuole sentir parlare.
L’apparenza non è dunque qualcosa di superficiale, è insieme segno e cardine di uno stato psicologico ma anche chiave per sottrarvisi. La guarigione consiste così nell’abbandono di quell’esteriorità imposta da qualcun altro e nella fabbricazione di un’immagine (e un’identità) nuova, che Dalva decide di ricostruire fin dalle fondamenta (dis)imparando letteralmente e simbolicamente a camminare – aiutata da un’amica, arriverà anche a disapprendere la sua andatura signorile. Se il film riafferma la centralità della superficie iconica nella costruzione dell’identità, simultaneamente rivendica per sé il medesimo ruolo: muovendosi tra le immagini comunemente associate alla vulnerabilità, come la giovane età e l’innocenza, le risignifica fortemente facendoci rivedere anche tutto il resto del cinema sul tema con altri occhi. Agire sull’identità visibile e performata diventa una terapia per reimmaginarsi.
Dalva ha dodici anni e si sente una donna, non una bambina: è quanto ripete agli assistenti sociali dopo l’arresto del padre, di cui si dichiara innamorata malgrado l’uomo abbia a lungo abusato di lei. Sarà grazie a una casa famiglia e all’amicizia di una coetanea che Dalva lentamente imparerà a guardare il mondo da una prospettiva diversa e a riappropriarsi della propria infanzia.