Il bacio tra Matthias e Maxime, il primo, quello “cinematografico” che per scherzo li unisce per sempre in un corto amatoriale più vero del vero, è un bacio non innamorato. È un bacio rimosso, immaginato, mai visto: nasce e muore in quella brevissima durata, ed è un bacio non spontaneo. Ma è in questa forzatura “attoriale” fuori campo, una partecipazione dettata da scommessa e intraprendenza, che Matthias e Maxime, amici, giovani, sentono di non poter amarsi. Le ragioni sono infinite, ma sono più importanti le illusioni: perciò la vita, per Matthias & Maxime, sarà un’eterna lotta contro la concretezza di un realismo spietato. Appunto, giovani.
E Xavier Dolan, che oggi di anni ne ha trenta, con Matthias & Maxime sembra voler tornare indietro, rincasare nell’adolescenza di J’ai tué ma mère e Les amours imaginaires per rivivere un tempo probabilmente finito troppo in fretta. Lo fa con ciò che gli riesce meglio, il narcisismo come messa a nudo di un’idea (di cinema). Ma si tratta di un narcisismo che fa rima con violenza: Matthias & Maxime è un film straziato, che insiste sulla dilatazione temporale del sentimento (e della soddisfazione del sentimento) con una tale pervicacia da apparire perversa. È però la perversione dell’insicurezza e dell’ostinazione, una perversione che non è ossessione bensì candore.
Non c’è niente di più bello della persistenza interrotta, e sempre rinviata, e sempre a un passo dal broncio, sempre a una distanza poco rassicurante dal capriccio. Non posso rimproverare Dolan di eterna giovinezza, la sua è anche una riflessione sull’essere cresciuto più in fretta di quanto forse lui stesso si aspettasse. Credere ancora alla vita come a un’istanza è una posizione che non tutti sono disposti ad occupare. Credere che il cinema possa aiutare, e debba rappresentare le pulsioni e gli affetti, le sorprese e gli imprevisti, è una necessità che - non mi vergogno a dire - sento anche mia.
È il cinema infatti a mettere in scena quell’impacciato rapporto sessuale arrestato bruscamente, “Noi non siamo così”, filmato in 35 e 65mm e formato 2.2:1, ruvido come i baci di Quando hai 17 anni di Téchiné, un sogno forse, una “finzione”, chissà, un altro “corto”. Ed è il cinema a tornare con prepotenza insperata quando la malinconia e la solitudine si mangiano il giorno e la notte, i luoghi e i soggetti: nei suoi momenti più disperati, nella sua immediatezza senza filtri, Matthias & Maxime pare appartenere alla New Hollywood, come un Rafelson ancora alla ricerca di cinque pezzi facili.
L’inquietudine di Matthias e di Maxime deriva dunque da generalità date per scontate; concedere un significato a quel bacio “finto”, dargli una direzione e una “possibilità”, contro ogni logica e ogni buon senso, è ciò che la narrazione di un’età così folgorante e così decisiva è chiamata a fare. D’altronde il buon senso è, nell’articolazione dei sentimenti, una dannazione: meglio continuare a lasciarsi travolgere da tutti i battiti inspiegabili del cuore più giovane che spegnere i pensieri e chiudere gli occhi.
Due amici d’infanzia si scambiano un bacio durante le riprese di un cortometraggio amatoriale. Il gesto, apparentemente innocuo, insinuerà in loro un dubbio persistente, minacciando l’unione della loro cerchia sociale e, alla fine, cambiando improvvisamente le loro vite