C’è una certa tendenza nel cinema recente, in particolar modo quando si parla di diritti, a vedere le cose attraverso le lenti della contemporaneità. Non che questa sia una prerogativa del grande schermo, e nemmeno soltanto degli ultimi anni in realtà. Ma ultimamente, sarà perché la riflessione sul tema è molto attuale (e forse anche un po’ di moda) si moltiplicano i film in cui le conquiste del passato - le battaglie delle minoranze o la parità di genere, tanto per dire - sono proposte al pubblico con gli occhi del pubblico, o, per meglio dire, con gli occhi di chi si trova di fronte a queste tematiche oggi. Forse per accontentare la necessità degli spettatori di sentirsi con la coscienza a posto, finalmente figli di una società civile ed evoluta rispetto alle barbarie dei tempi andati. Il risultato è una sorta di scollamento rispetto alla realtà, spesso ben più cruda e complicata di quanto ci piaccia immaginare. Ecco, in La brava moglie di Martin Provost questo scollamento è talmente evidente che in un primo momento si potrebbe pensare all’ennesimo film girato con il filtro del XXI secolo. A guardar meglio però, ci si accorge che si tratta di un effetto cercato e rimarcato.
C’è un indizio: “Non siamo più nel Medioevo” dice Paulette, direttrice della scuola di economia domestica Van der Beck, alla suora spaventata perché, tra le nuove allieve, c’è una ragazza dai capelli rossi. Ebbene, è proprio la stessa frase che ripetiamo tante volte anche oggi, per rimarcare la distanza con quei secoli bui. Ignorando il fatto che, spesso e volentieri, quei secoli non erano poi così bui come i falsi miti della storia ci hanno tramandato. A pronunciare questa battuta è una donna del 1967 fasciata in un tailleur, manco a dirlo, rosa confetto. Paulette, che ha il volto e la misurata ironia di Juliette Binoche, dirige uno dei tanti istituti che nella Francia di quegli anni si occupavano di formare, appunto, “le brave mogli”. Mentre enuncia alle sue allieve i sette pilastri della casalinga modello, in un susseguirsi di scenette didascaliche è subito chiaro che la signora Van der Beck è lei stessa il prototipo della sposa perfetta. Oltre a lavorare sodo è un vero angelo del focolare: cura impeccabilmente la casa, accudisce il coniuge e accondiscende a tutti i suoi desideri. Anzi no, un difetto ce l’ha: parla di politica! “Il generale De Gaulle sarà all'altezza?”, chiede mentre si fa il bidet.
Sfruttando un cliché ormai collaudato - la donna di mezz’età che, alla morte del marito, si ritrova indebitata fino al collo e scova finalmente il coraggio per il suo riscatto personale - Provost traccia un altro ritratto femminile dopo Sérapahine e Violette. Anzi, più di uno: c’è Gilberte, la svampita romanticona che danza sulle note di “Tombe la neige” di Adamo, e che ha la comicità un po’ goffa di Yolande Moreau. C’è Marie-Thérèse, la religiosa con un passato nella Resistenza e il grilletto facile interpretata da Noémie Lvovsky. E poi ci sono le giovani educande, su cui la sceneggiatura, scritta a quattro mani dal regista insieme a Séverine Werba, lavora componendo una sorta di piccolo campionario: chi è stata promessa in matrimonio a un uomo che non ama, chi sta scoprendo la propria sessualità, chi si innamora di una compagna. Lo sguardo su questa nuova generazione di donne è piuttosto superficiale, ma vi si sofferma in modo funzionale a suggerire quanto esse covino dentro, anche se inconsapevolmente, lo spirito del Sessantotto. Mentre alla radio trasmettono le notizie dei picchetti nelle università, le ragazze nel dormitorio fanno la lotta coi cuscini come a simboleggiare l’indole disobbediente di chi vuol essere libero di vivere e di amare. Del resto anche Paulette, che troverà la prova del vero amore nella ricetta dello strudel alsaziano, comincia a respirare l'aria del tempo.
La regia esagera intenzionalmente trama e personaggi a costo di risultare a tratti caricaturale, ma la narrazione funziona, anche grazie alle gag comiche e all’equivoco che interviene di continuo a beneficio di ritmo e suspence. D'altra parte non c’è il rischio di annoiarsi: si va dalla commedia, che non disdegna il doppiosenso facile e malizioso, al romanzo di formazione nei brevi intermezzi sulle adolescenti in procinto di diventare adulte; dal melodramma amoroso, con tanto di zoom improvviso sul viso degli amanti finalmente ritrovati, al musical inaspettato e risolutorio lungo la strada per Parigi.
La brava moglie ripercorre il passaggio dalla grandeur degaulliana alla rivoluzione del maggio francese, fino a diventare un manifesto femminista che rievoca esplicitamente i nomi di Simone de Beauvoir, Frida Kahlo, Giovanna d'Arco. Un pastiche colorato nel quale ogni cambiamento è repentino tanto quanto il passaggio da un genere all’altro e le conquiste delle donne sembrano facili da raggiungere: persino la suora si trasforma in una suffragetta in un batter d’occhio. Forse perché in quel momento i diritti sembravano davvero lì, dietro l’angolo, forse perché da allora, a distanza di più di mezzo secolo, non è poi cambiato davvero così tanto... Fortuna che “non siamo più nel Medioevo”, direbbe Paulette.
Paulette e suo marito hanno diretto per anni una scuola per governanti. Dopo l'improvvisa morte del marito, Paulette, che ha sempre vissuto all'ombra del coniuge, scopre che la scuola è sull'orlo della bancarotta ed è arrivato il momento di assumersi le sue responsabilità e di tornare finalmente libera.