Più di un secolo fa, in un testo del 1903 dedicato alla condizione dell’uomo metropolitano, il sociologo tedesco Georg Simmel scriveva:
Il riserbo e l’indifferenza reciproci non sono mai avvertiti più fortemente nei loro effetti sull’indipendenza dell’individuo che nella più densa confusione della metropoli, dove la vicinanza e l’angustia dei corpi rendono più sensibile la distanza psichica. Ed è solo l’altra faccia di questa libertà il fatto che a volte non ci si senta da nessuna parte così soli e abbandonati come nel brulichio della metropoli.
Di questo parla Her: la solitudine dell’uomo metropolitano. I grattacieli come sbarre di una gabbia dentro alla quale troviamo un individuo che, nei centodieci anni che separano il testo di Simmel dal film di Jonze, non pare avere cambiato molto la propria condizione. Continua ad essere vittima dello strano paradosso che vede da una parte moltiplicarsi il numero delle persone con cui condivide lo spazio urbano e dall’altra assottigliarsi la possibilità di avere rapporti sociali importanti e profondi.
Naturalmente qualcosa nel frattempo è cambiato: il pandemonio tecnologico-informatico degli ultimi vent’anni ha rivoltato le nostre quotidianità come un calzino, consegnandoci ad un destino avvitato su forme mediate e indirette di socialità. Ed è proprio questo orizzonte a fare di Her forse non uno dei film migliori dell’anno, ma sicuramente uno dei più cruciali, per come affronta direttamente questioni dalle quali è ormai difficile o impossibile chiamarsi fuori.
Lo fa con una delicatezza sorprendente, scevra del moralismo strisciante che in passato caratterizzava i film nei quali un essere umano si innamorava di una creatura virtuale. Le parabole sull’alienazione dell’individuo nella società moderna non possono più permettersi i toni saccenti del racconto morale, perché quella condizione è, oggi, comune a tutti.
A rigor di genere, Her dovrebbe essere un film di fantascienza, ma nessuno lo prende come tale, perché la tecnologia di cui è preda il protagonista è solo un millimetro più in là rispetto a quello che abbiamo già a nostra disposizione. Più che distopica, una fantascienza lungimirante, che sa guardare dietro l’angolo. Provando, nell’impossibilità di tornare indietro, a suggerire che esiste un antidoto: la forza delle parole.
Dalle struggenti lettere per procura che scrive il protagonista alla dialettica effervescente su cui poggia il fascino della sua ragazza virtuale, Jonze si chiede se - in un mondo dove la geografia dei sentimenti viene trascritta a suon di foto, video e selfies – a fare la differenza non possano essere le parole. La loro capacità di innescare traiettorie emotive che sfuggono all’immediatezza dell’immagine per rifugiarsi in zone d’ombra dove a contare sono le esitazioni di una voce, il suono di un aggettivo, la fragilità di un verbo. Come tarli, le parole possono corrodere la certezza delle immagini e ricondurre gli uomini all’altezza delle loro intermittenze emotive.
No, il mondo non verrà salvato dalle parole. Però, ci dice Her, può uscirne notevolmente addolcito.
Uno scrittore solitario instaura un’improbabile relazione con il suo nuovo sistema operativo che è programmato per soddisfare qualsiasi suo desiderio.