Sei piena di tutte le ombre che mi spiano. (Pablo Neruda)
Quando ci si ferisce o si prende una botta molto forte, tra l’urto e la fitta acuta passano alcuni istanti in cui il dolore non è ancora lancinante, ma sordo, trattenuto, quasi distante e, per un momento, si crede di averla scampata. Pensavo peggio, ci si dice, restando immobili per paura che anche un gesto lieve rompa il precario equilibrio. Ma poi il male arriva e porta con sé l’attesa che il sangue si coaguli, che il gonfiore si attenui e l’ematoma pian piano svanisca.
Theodore Twombly (Joaquin Phoenix) vive in una specie di bolla che Spike Jonze gli mette a disposizione facendolo abitare in una città dai colori pastello e dalla luce gentile, che mescola Los Angeles a Shanghai, in cui la musica ha qualcosa di ovattato e i contorni dei volti e delle cose sono pressoché sfumati.
Anche il lavoro rispecchia questo suo vivere protetto da una specie di membrana. Theodore infatti si mantiene scrivendo lettere per conto terzi: lettere piene di amore e passione, di gratitudine e amicizia. Chi vuole omaggiare la propria sposa, chi ringraziare i genitori per il loro affetto o l’amico per essergli sempre stato vicino. E Theodore è bravissimo con le parole, osserva le foto dei destinatari, ne coglie i dettagli, ha pensieri profondi e delicati per ognuno, è attento e sensibile, quasi li conoscesse davvero.
Ma le parole sono ingannevoli. Theodore infatti è solo: si sta separando dalla moglie Catherine (Rooney Mara), la donna che ha amato e con cui è cresciuto, ma non è ancora stato in grado di elaborare il lutto per questa perdita, tanto da non volerlo nemmeno riconoscere a se stesso; ha una sola amica, Amy (Amy Adams), con la quale talvolta si confida e che non è, però, sufficiente a riempirgli le giornate e a dargli sollievo. L’apparente risveglio sembra essergli donato dall’incontro col sistema operativo Samantha (Scarlett Johansson), un’intelligenza artificiale in grado di evolversi e svilupparsi sulla base degli stimoli che riceve.
Amarissimo ritratto di un futuro prossimo, fintamente confortevole e sereno, in cui la solitudine, benché scelta e non imposta, è forse l’esempio più chiaro di dismissione dalla vita, Her svela come, in fondo, il desiderio latente di ognuno, quando deve affrontare un dolore, sia il ritorno al torpore del ventre materno.
Suggerito già all’inizio del film - con Theodore che osserva le immagini di una ragazza incinta, nuda e provocante, e poi ne usa il ricordo la sera stessa mentre si masturba grazie a un servizio di telefonia erotica - e reiterato nella sequenza in cui Amy mostra il video a cui sta lavorando e che ha per protagonista la madre che dorme (oppure nel ricordo dell’ex moglie con in braccio un neonato), il tema del cercare riparo nel ventre materno, ospitale e protettivo, si svela nel momento in cui entra in scena Samantha, dotata di sola voce, che si palesa pian piano come un porto sicuro a cui approdare.
Samantha è accogliente e dolce, curiosa e docile, ma soprattutto non è mai invadente. Theodore, quando vuole, può spegnerla, interrompere la comunicazione, e tornare a parlare con lei solo quando lo desidera. Nel frattempo Samantha gli sistema le mail, gli ricorda gli appuntamenti, lo consola quando è giù di corda e lo fa ridere mentre si trovano nei momenti di leggerezza. Si lascia forgiare da lui (è programmata apposta), mutando a seconda degli stimoli e restituendogli la sua opinione sempre con molta discrezione. Fa anche l’amore con lui, quando Theodore ne ha voglia. Insomma è una madre, un’amante, un’amica, una segretaria, un’allieva.
Ma non è l’Altro. È una proiezione di Theodore in via di evoluzione. E come proiezione non ha corpo. Non è dotata dell’ingombro della carne, la sua presenza non fa pressione. È una presenza-assenza, di cui Theodore si innamora.
I problemi si manifestano quando Samantha comincia a prendere iniziative e a progredire a tal punto da non voler più essere “solo” un sistema operativo a servizio dell’uomo: ormai prova sentimenti, ha un proprio punto di vista e soprattutto desidera affrancarsi dalla volontà altrui. Solo in quel momento Theodore si ritrova a dover affrontare il suo vero Altro, ossia Catherine, al confronto con la quale era sempre sfuggito.
Catherine, anche quando non è con lui, è una presenza (non una presenza-assenza come Samantha) e non solo perché lo incalza, ponendolo in una condizione di ansia, ma per il suo corpo, che vive anche nei ricordi dell’uomo (che, non a caso, gli procurano dolore): lo sguardo e il sorriso, gli occhi e la bocca, le mani e la sua figura magra e elegante, i capelli sottili e le espressioni buffe. Tutto quello che Samantha non potrà mai avere o essere, evitando dunque, già in partenza, una serie di complicazioni a Theodore.
È interessante notare come a pochi mesi dall’inizio dell’anno, i due migliori film usciti in sala rappresentino, benché in maniera diversa, lo stesso soggetto, ossia la fuga dal Reale. Uno è Her, l’altro The Wolf of Wall Street.
Nel film di Scorsese la presenza fantasmatica del denaro, l’assenza delle vittime-clienti (di cui si ascolta solo la voce al telefono), i corpi di Jordan Belford e dei colleghi usati come involucri o stampelle per mettere in scena la performance, con ovvie ricadute compulsive (il sesso, la droga), sono una dimostrazione della gigantesca truffa virtuale del capitalismo (che ha ovviamente ripercussioni reali ma che, come per gli spettacoli di illusionismo, funziona solo grazie alla sospensione dell’incredulitá, e quindi grazie alla totale immersione nell’Immaginario, in cui il Reale stesso è collassato). Nella pellicola di Jonze l’assenza del corpo, sostituito da una voce accogliente e remissiva, proiezione dei desideri del protagonista, determina la scomparsa dell’Altro, ossia di ciò che “fa problema”.
In entrambi i casi si tratta di stare in un limbo, tentando di procrastinare l’arrivo del dolore, che squarcerebbe l’illusione di essere in salvo, riportando tutti alla realtà.
Uno scrittore solitario instaura un’improbabile relazione con il suo nuovo sistema operativo che è programmato per soddisfare qualsiasi suo desiderio.