In un film che pare tradurre la solitudine di un individuo innamoratosi del suo sistema operativo dalla voce flautata esclusivamente attraverso piani ravvicinati fissi e insaturi, incollati sul volto del personaggio senza mai rimandare a un controcampo pressoché impossibile, perché ancorato in una dimensione solo sonora, Spike Jonze si premura di significare la progressiva deriva del protagonista attraverso modalità alternative che investono sfere differenti, alcune tecniche, altre allegoriche, altre ancora di attinenza cromatica.
Queste ultime, ad esempio. Jonze agisce sulla mimesis. La solitudine di Theodore (Joaquin Phoenix) è immersione totale in una dimensione indistinta e illusoria all'interno di un'unicità che non gli appartiene (come sarà dimostrato inequivocabilmente mostrando il flusso continuo e inarrestabile di una moltitudine anonima intenta a comunicare animatamente con il proprio sistema operativo palmare).
Theodore, nella sua inconsapevolezza, è solo uno degli oltre ottomila centri d'irradiazione possibili, uno tra i tanti su cui la macchina da presa sceglie di concentrarsi, alla ricerca di un exemplum nelle trame del quotidiano. Theodore è più che semplicemente solo: è letteralmente contestualizzato. Fa parte della scenografia, non si staglia nettamente da essa, ma è concretamente imbibito nello spazio. In questa prospettiva, Lei non è una storia di solitudine tamponata dalla realtà virtuale e poi colmata in un aurorale finale con l'amica di una vita, ma un autentico scavo all'interno di un abisso impersonale nel quale si smarriscono profili, estremità e relazioni definite.
Jonze concentra l'attenzione dell'inquadratura su Theodore, inglobandolo contemporaneamente in dominanti cromatiche che ne annullano il supposto protagonismo. L'incontro stesso con il sistema operativo in via d'installazione, prima ancora che si palesi come la suadente Samantha, è evidenziato con una diagonale vermiglia che connette Theodore, lo schermo del computer e la lampada sulla scrivania, in una continuità che lega insieme organico e inorganico, vivente e inanimato.
L'emarginazione virtuale di Theodore è invece restituita con un verde acido che incorpora, intrappola e sfuma in una foschia dai margini indefiniti e sovrapposti.
Anche la felicità è ingannevole: ha il ritmo di un folle ballo di gioia nei corridoi della metropolitana che conducono al mare, ma la camicia a quadri di Theodore è motivo in rilievo che pareti e pavimenti replicano, alterando profondità e proporzioni, abbagliando attraverso un trompe-l'oeil di beatitudine.
Perfino un colore vivace come il giallo della camicia è schiacciato verso lo sfondo dal pannello di plexiglas dello stesso colore che compare alle spalle del personaggio e ne smorza il contorno, congiungendolo all'ambiente.
E infine, anche l'atto volitivo finale di recarsi alla porta dell'amica Amy per condividere l'alba nascente e forse un nuovo rapporto insieme è mortificato dall'opacità di tinte sbiadite che rendono Theodore parte integrante della mestizia del corridoio che sta percorrendo, obbligando lo spettatore, malgrado la di poco posteriore inquadratura sul tetto, a chiedersi: «è un vero happy end?».
Uno scrittore solitario instaura un’improbabile relazione con il suo nuovo sistema operativo che è programmato per soddisfare qualsiasi suo desiderio.