Da un paio di decenni va di moda sparare a zero su Wim Wenders, salvandone solo i documentari. Alcuni passi falsi sono innegabili, andrebbe però riconsiderato il valore di un percorso autoriale che, se resterà nella storia per l’importanza delle opere antinarrative e metalinguistiche degli anni ’70 e dei primi ’80, ha poi volutamente intrapreso una svolta in nome del potere della narrazione, nella ricerca di un ponte tra "classicismo" statunitense e "modernismo" europeo.
Oggi va riconosciuto a Wenders di essere anche uno dei pochi autori che hanno avuto il coraggio di confrontarsi con la tridimensionalità, cercando esiti non meramente effettistici, ma creativi, proiettati nel futuro (un coraggio che manca alle giovani generazioni). L’uso del 3D, in Ritorno alla vita (Everything will be fine - d’ora in poi ricorreremo al titolo originale) è lontano tanto dall’uso, ancora ad effetto sia pur di classe, che ne ha fatto Scorsese in Hugo Cabret, quanto da quello, geniale ma estremo, che ne ha fatto Godard in Addio al linguaggio.
Wenders lavora per sottrazione. Si astiene dagli effetti di stupore: li relega alle prime sequenze - quelle con il pulviscolo e i fiocchi di neve. Indizio preciso dell’intenzione di muoversi in altra direzione, per aprire il 3D a un dialogo con la dissolvenza, le sovrimpressioni, la fotografia, i riflessi, i riquadri nel quadro, e naturalmente con la profondità di campo. Particolarmente insistito, il ricorso all’uso dello zoom avanti/carrello indietro - come in Vertigo - che, in 3D, contribuisce al disorientamento emotivo su cui tutto il film è fondato.
Vertigini e abissi, spaziali e temporali. Il film è costruito su ellissi vertiginose. Di quelle temporali sono segnalate solo le più vistose (“due anni dopo”; “quattro anni dopo”), ma tutta la narrazione si svolge attraverso un ricorso continuo alle ellissi, che accompagna la dilatazione dei tempi, i silenzi, l’attitudine contemplativa più che narrativa, la dimensione intimista e l’atmosfera sospesa.
L’insistenza sui riflessi (il volto del protagonista Tomas, interpretato da James Franco, nella medesima inquadratura insieme al suo riflesso su un vetro), crea in 3D una peculiare e inedita sensazione di sdoppiamento. Appaiono inedite le dissolvenze (la telefonata notturna) e i cambi repentini di luminosità a segnalare lo scorrere del tempo in una medesima inquadratura.
Centrale, in Everything will be fine, è il rapporto sofferto con la paternità mancata, che si insinua nel senso di inadeguatezza di un maschio adulto nel mezzo della vita. La paternità (biologica o adottiva, rifiutata o idealizzata) è tema ricorrente nel cinema di Wenders: presente già in Alice nelle città, passa per L’amico americano sino a radicarsi nei film sceneggiati da Sam Shepard (Paris, Texas, Non bussare alla mia porta).
Altro tema è il rapporto problematico tra arte e vita. Tomas è divenuto uno scrittore migliore dopo il trauma che ha vissuto. La difficile conciliazione fra creatività artistica e vita privata si coniuga alla paura e al bisogno di paternità.
Lo sceneggiatore del film è il norvegese Bjørn Olaf Johannessen. Il titolo di un libro di Tomas, “Nowhere man, è quello di un altro film sceneggiato da Johannessen, diretto dalla regista belga Patrice Toye. L’espressione Nowhere man sintetizza sia il senso di inadeguatezza di Tomas, sia l’atmosfera rarefatta e sospesa del film, che percorre undici anni della sua vita.
Si è detto delle ellissi: ciò che salda la ricerca stilistica alle tematiche usuali è proprio lo scorrere del tempo del racconto. Dopo Boyhood è inevitabile fare i conti con l’esperimento di Linklater, da cui Everything will be fine inevitabilmente si scosta. Eppure dal film di Wenders si ricavano sensazioni non dissimili, quanto alla fuggevolezza del tempo e all’inafferrabilità dell’esistenza.
Qualche limite può essere riscontrato nei dialoghi, o in una direzione degli attori forse meno magistrale della messa in scena. La ricerca del minimalismo è infatti talmente pervicace da rischiare che la prova di tutto il cast, da James Franco a Charlotte Gainsbourg, sconfini nell’asetticità. Ma allora, a fronte di recitazioni quasi impalpabili, appare davvero straordinario come Everything will be fine risulti tutt’altro che raggelato. Al contrario, trattiene le emozioni per farle pulsare sottotraccia: usando una celebre massima di Bresson, produce emozione attraverso la resistenza all’emozione.
Profondità di campo e profondità di tempo. Disorientamenti spaziali e temporali. Il disorientamento (la sospensione) dell’emozione convenzionale è il modo in cui effettivamente Wenders tende al suo obiettivo dichiarato, quello di cercare, anche grazie alla tridimensionalità, una maggiore empatia con lo spettatore.
Il film racconta dodici anni nella vita di Tomas, uno scrittore americano in piena crisi creativa: la sua relazione con Sara, una ragazza dolce e convenzionale che poco capisce del suo mondo interiore; quella con l’editrice Ann e sua figlia Mina; il difficile rapporto con la scrittura, il successo critico e il riconoscimento intellettuale; il legame misterioso e indissolubile con la bellissima Kate, giovane madre di due bambini che vive negli spazi sconfinati del lago Ontario.