E diciamolo subito, che La La Land è un film straordinario. E che non serve essere appassionati di musical per capirne l’importanza e l’efficacia. Aiuta, certo, ma non è essenziale. Perché la cinefilia analitica rischia non soltanto di far perdere le sue tracce, ma anche di confonderle; a tal punto che, in mancanza d’altro, si citano – spesso a sproposito – Minnelli e la coppia Astaire-Rogers. Giusto perché quella scena ricorda o omaggia quell’altra, o un passo a due ne evoca un altro.
Eppure La La Land non c’entra quasi niente con il musical di Minnelli, e ben poco con quello di Sandrich o di Donen. E davvero non è sufficiente il set in cui lavora Mia (Emma Stone), il coffee shop negli studi della Warner, per convocare Cantando sotto la pioggia. Altrimenti va bene tutto, e il musical, ancora una volta, fa la figura di un immaginario di fantasia al lavoro, fondale dipinto, la solita fuga dalla realtà, il sogno quale rifugio e via banalizzando.
Chazelle è abbastanza chiaro da subito: messa da parte ogni possibile riflessione sui sessi (di cui era impregnato il musical hollywoodiano d’oro), e ipotecata un’appartenenza di genere con l’incipit, un pezzo musical en plein air di bella classicità, gli interessa parlare della realtà e alla realtà. E lo fa con una commedia che si scioglie nel dramma e che è un musical anomalo come lo erano i due capolavori in musica di Demy, Les parapluies de Cherbourg e Les demoiselles de Rochefort.
La La Land è il Les parapluies del Sogno americano: come Demy, e come già nel bellissimo esordio Guy and Madeline On a Park Bench, Chazelle usa il tempo quale antagonista, ostacolo alla realizzazione dei propri desideri, peso trasparente con cui fare i conti. Il finale da Seb’s, con quello sguardo conclusivo, ha tutta la melancolia della scena al distributore di benzina che chiude Les parapluies, un musical all singing but not dancing, il racconto di un privato sullo sfondo di uno stato delle cose forse non tragico però certamente autonomo, e anche per questo motivo amaro.
La La Land, che è un film sul modo di vivere la realtà e soprattutto una città (Los Angeles), che è un film contemporaneo nonostante certo vintage di sottofondo, che di Demy si preoccupa giustamente di recuperare l’afflizione, più di una non meglio specificata estetica, crede nei personaggi ma li fa scontrare con l’insopportabile corsa degli eventi, cioè con l’inevitabilità del mondo. L’oggi.
Allora mi sembra inutile ragionare di computo, che per giunta è operazione nostalgica un po’ necrofila; ritrovare nella parentesi all’Osservatorio Griffith sia Gioventù bruciata (richiamato peraltro direttamente), sia Balla con me di Taurog, è operazione immediata ma anche trascurabile (e perché non ricordare allora i due Allen sospesi per un intervallo fra le stelle di Manhattan e Magic In the Moonlight?): La La Land è un racconto crudele della giovinezza dove l’amore è penosamente un subordinato, senza acrimonia, senza rimproveri, solo il rimpianto che non possa essere diversamente. La vita “se fosse stata” che termina il film, e che ha la forza commovente e definitiva di quella sempre troppo dimenticata di Arizona Junior (ma c’è anche La 25a ora), è il vero musical di La La Land, non perché minnelliano, bensì per il suo significato di termine, chiusura del cerchio, fermata necessaria che di più non potrebbe essere e di più non avrebbe potuto.
«I guess I’ll see you in the movies» dice Sebastian a Mia, agli esordi della loro storia, un po’ sarcastico un po’ no, ed è insieme la speranza e il testamento del film stesso. Nei movies lei ci finisce per davvero, e non più con la sola illusione, sancendo però una fine. The End. E dunque la realtà riprende l’indipendenza e il potere, come accadeva in due dei musical più belli di sempre, il serial per la BCC Pennies from Heaven di Dennis Potter e l’adattamento hollywoodiano di Herbert Ross del 1981: La La Land ne condivide la tristezza senza mai doverli omaggiare o citare.
A riprendere l’autorità che le spetta è inoltre la città, dopo che si è cercato di commisurarla e conformala a sé. Non ho memoria di una Los Angeles così presente e così influente da Heat - La sfida; nemmeno quella di I protagonisti di Altman era così attiva. Chazelle è capace di renderla perfino quarta parete, perché questa Los Angeles, mentre piega Mia e Sebastian al proprio sé (non li accompagna, non li segue, non ne è un semplice contesto, ancor meno ne è una cornice), ti guarda, guarda lo spettatore chiedendogli di partecipare a un’idea confidenziale di solitudine, dal grande al piccolo, dal tutto al privato. Non un film su Los Angeles, ma un grande film su quanto Los Angeles sia decisiva.
Le fantasticherie del musical classico vestono dunque i vestiti nuovi dell’imperatore, smascherate da una realtà che, come in Pennies from Heaven, è chiamata a ricolorare l’uomo e i suoi sogni di tonalità diverse, colori diversi, ombre allungate. Il sorriso di Mia e di Sebastian al Seb’s, e quel leggerissimo gesto del capo, non possono colmare la distanza che si è creata (distanza non soltanto allegorica: lei è sulla via d’uscita, lui al pianoforte sul palco). Les parapluies de Cherbourg cantava in fondo la naturalezza malinconica di un destino già scritto. Quello di La La Land, di destino, è già dato all’inizio, in quel quadrato stretto stretto (Academy ratio?) del “Presented in CinemaScope”, che ingannevole si allarga ad accogliere il cielo di Los Angeles, i personaggi, il musical.
La La Land racconta un'intensa e burrascosa storia d'amore tra un'aspirante attrice, Mia, e un musicista, Sebastian, che si sono appena trasferiti a Los Angeles in cerca di fortuna. Dopo alcuni incontri casuali, tra i due esplode una travolgente passione nutrita dalla condivisione di aspirazioni comuni, da sogni intrecciati e da una complicità fatta di incoraggiamento e sostegno reciproco. Ma quando iniziano ad arrivare i primi successi, i due si dovranno confrontare con delle scelte che metteranno in discussione il loro rapporto. La minaccia più grande sarà rappresentata proprio dai sogni che condividono e dalle loro ambizioni professionali.