Qualche volta capita ancora di sorprendersi per il potenziale del cinema italiano. Che sia un cinema che nasce lontano da certe logiche produttive lo lasciamo raccontare ai titoli di testa e a quelli di coda, però ci si dovrà abituare a pensare che Re granchio di Alessio Rigo de Righi e Matteo Zoppis è un’opera prima che non è affatto un primo film, per nessuno dei due autori, perché è preceduto da alcuni cortometraggi e da Il Solengo (2015), che tuttavia, per il fatto di passare sotto l’etichetta di documentario, è suo malgrado figlio di un dio minore. Di sicuro non è un’opera sola, Re Granchio, proprio perché di quel “documentario” è in qualche modo fratello e prosecuzione.
Un altro ritrovo di cacciatori, a Vejano, tra le colline tufacee del viterbese, qualcuno intona uno stornello emblematico, qualcun altro precisa che si tratta di un altro personaggio presentissimo nell’immaginario collettivo – come era appunto Il Solengo –, una figura che si rincorre nelle parole del gruppo di amici. «Era la fine dell’Ottocento, inizio Novecento, a Vejano si faceva la fame, c’erano i Principi e la povera gente»: poco importa che il paese fosse stato feudo dei Santacroce, degli Orsini e degli Altieri, quello che importa sono i contrasti forti, simbolici, alto-basso, come negli exempla, nelle fiabe, ma anche nei feuilleton ottocenteschi.
Il personaggio è Luciano, il figlio del medico del paese, dicono i più, ma forse figlio non riconosciuto del Principe, dicono gli altri; tutti concordano sul fatto che avesse problemi con l’alcool, e che fosse per questi finito in manicomio e poi uscito. Eppure Emma sembra vederlo con altri occhi, lo ha sempre visto con altri occhi, e se ne innamora. «Povera Emma», diceva una canzone delle nostre nonne… Il passaggio dal tempo presente, dalla tavolata di oggi, all’incarnazione dei personaggi, e con essa alla liberazione, in qualche misura, del racconto, è quasi impercettibile, soprattutto quella del protagonista, interpretato in maniera magnetica da Gabriele Silli (che, di suo, sarebbe artista plastico, oltre ad assomigliare in più momenti all’immagine che ci siamo fatti di Caravaggio, somiglianza corroborante e un po’ fuorviante al tempo stesso); è un passaggio di stato che non è cambio di registro, non da ultimo perché man mano che la vicenda procede ritroviamo gli stessi volti, le stesse tipologie di scambi verbali, di gesti, attorno a una tavola d’osteria ottocentesca, dove i temi della discussione, oltre ai fatti di Luciano, sono diritti di pascolo e servitù di passaggio, come nella migliore delle tradizioni italiche.
Chi ha avuto la fortuna di crescere in campagna, o in montagna, conosce il valore di quelle storie, anche delle storie insignificanti, di piccole e grandi beghe, di delinquenti umbratili e virtuosi in odore di beatitudine, il valore che ha il raccontarle e l’ascoltarle, e soprattutto conosce il loro sedimentarsi sulla superficie dei luoghi, tra le frasche dei boschi, sulle cortecce dei faggi e dei castagni, nelle foglie che lentamente tornano alle radici, nel muschio spesso che non conosce i punti cardinali, nell’immagine dei ruderi e delle case abbandonate, nella calce scrostata dei capanni e delle cantine, tra le rughe di coloro che quelle storie le raccontano. Non che questo non succeda in città, ma di certo la natura aperta è una tela più ricettiva e più duttile, più aperta all’immaginazione, più disposta alle apparizioni. Di questo immaginario e dei suoi umori (e per lo spettatore più disposto alla sinestesia magari anche degli odori) si nutre il film di Rigo de Righi e Zoppis, e il raccordo tra cinema del reale e cinema narrativo, d’avventura è proprio per questo un passaggio dovuto, naturale.
In Re Granchio le storie che prendono forma in mezzo a una natura che sembra costantemente recuperare vantaggio sull’uomo, sono principalmente due, o meglio, sono i due capitoli di un’unica storia, la storia di Luciano: Il fattaccio di Sant’Orsio, che è ambientato appunto a Vejano, e In culo al mondo, che, come lascia intuire il titolo, scaraventa il protagonista e lo spettatore agli antipodi, nella Terra del fuoco, con una manciata di avventurieri e un granchio in un secchio (che è quello che alla fine dà il titolo al film, ma conteniamo al minimo gli spoiler).
Un passaggio dagli Appennini alle Ande completamente smarcato da ogni possibile connessione deamicisiana, e con un risvolto spericolato e brutale che è più amaro e disperato di qualsiasi romanzo di Salgari. La centralità dell’azione del raccontare, l’esemplarità di quello che si tramanda oralmente si esplicita, a più riprese, fino all’evocazione dell’estrema punizione inflitta dagli indios al prete colpevole di aver rubato le loro storie appuntandole sul breviario. «È andato là e a trovar fortuna, ma poi i racconti non dicono più niente di ’sto Luciano», «la gente racconta quello che sa, solamente che se racconta dieci parole, dopo viene tramandato a 15 parole, 50 parole, alla fine c’è un po’ inventato e un po’ vero, poi vai a capire cosa è inventato e cos’è vero».
Eccola, la libertà del narratore rispetto al cronista. Una libertà che per forza di cose si prendono anche gli autori del film, “narratori ultimi”, e che si può rintracciare, per esempio, nella creazione di un connettore simbolico, piccolo e potente, una lamina d’oro, un pezzo di fibula, forse, che Luciano trova nelle acque del lago all’inizio del film, un pezzo di “oro etrusco”: poco importa se non assomiglia alle vere oreficerie etrusche, ancora meno importa il valore economico dell’oggetto in sé, lo dice lo stesso Luciano a Emma nel momento in cui glielo appende al collo, e lo ripeterà anche al gaucho che lo accompagna nell’ultimo tratto della sua avventura: quello che conta «non è il valore che trovi, è l’immagine che vedi».
E però è proprio il valore dell’immagine, che è fotografata in pellicola, ad importare, in Re Granchio: nel processo di fissazione dell’immagine, il racconto, i racconti, i colori, i paesaggi naturali e la pelle degli attori non professionisti – che a sua volta è paesaggio, stratigrafia di vita – insieme ai suoni (e forse agli odori), si sedimentano senza fretta, e senza fretta si restituiscono sullo schermo all’esperienza dello spettatore, con una cadenza e una grandiosa semplicità che il nostro cinema, se mai l’ha avuta, non vedeva da tempo.
Ma questi appunti sono solo dieci, quindici, cinquanta cose che possiamo raccontare, per ora, su Re Granchio.
Italia, oggi. Alcuni anziani cacciatori ricordano la storia locale di Luciano, un girovago alcolizzato che a fine Ottocento viveva in un villaggio della regione Tuscia. Fiero oppositore del principe della regione, l’uomo è noto fra i compaesani per il suo spirito libertario e anarchico e i gesti di rivolta contro l’autorità. Innamorato di una ragazza del posto, preso di mira dalle guardie del principe, Luciano compie un orribile misfatto e viene esiliato nella Terra del Fuoco. Qui, sotto le sembianze di un religioso, con l’aiuto di spietati cercatori d’oro, si mette alla ricerca di un mitico tesoro, aprendosi una strada verso la redenzione. In quelle terre desolate, però, prevalgono solo l’avidità e la pazzia.