Bertrand Bonello torna a parlare della contemporaneità come non luogo spazio-temporale contraddistinto dalla perdita di punti di riferimento, di ideologie, di speranze, di obiettivi. Se in Coma aveva trovato nella bolla della pandemia lo spazio per tradurre lo sgomento in una amorevole lettera alla figlia, con The Beast (La Bête) torna invece a leggere l’oggi con la feroce lucidità del suo cinema, pensando al contemporaneo come una dimensione in cui non sembra esserci più nulla. Non è un caso che si parta da un universo indefinito, sublimato, svanito nel verde straniante del green screen per provare a cercare nella proiezione della propria immagine nel passatp, la possibilità di elaborare il trauma profondo di un’umanità totalmente smarrita.
The Beast inizia infatti in un futuro prossimo, è il 2044, che insinua la distopia sotto le forme inquietanti di un mondo molto realisticamente riconoscibile per poi muoversi (come già in Zombi Child) nel tempo storico e nello spazio geografico. Ci può essere davvero intelligenza - nel senso emozionale che è proprio dell’uomo - nell'A.I. che sembra ormai determinare ogni cosa? Ponendosi questa domanda Gabrielle (protagonista assoluta affidata a una Léa Seydoux ormai talmente sofisticata da poter affrontare qualunque prova) si trova a un bivio: sottoporsi a un trattamento che le indurrà una sorta di artificiale atarassia o restare umanamente legata alle emozioni che la condannerebbero a un misero destino?
Cercando di rispondere a questa domanda esistenziale Gabrielle inizia a esplorare vite ed poche precedenti alla ricerca di risposte che conducono lo spettatore attraverso un viaggio ipnotico in cui simboli e presagi di morte si legano indissolubilmente al disperato tentativo di comprendere se almeno l’amore possa essere una via di salvezza. Bonello innesta così il melodramma sulla distopia e il film diventa per un po’ (poi si trasformerà ancora e ancora e ancora) un elegantissimo dramma in costume ambientato in una Parigi di inizio Novecento in cui la modernità si annuncia attraverso Schönberg e la scoperta della celluloide; una modernità in cui l’individuo inizia anche ad elaborare il proprio disagio producendo simulacri dall’espressione neutra (le bambole) oppure, al contrario, lasciandolo sfogare in un espressionismo pittorico che riporta direttamente a Schiele. Una città e un'epoca senza futuro, non a caso, destinate a finire sott’acqua o avvolte dalle fiamme.
Acqua, fuoco. Sono sempre gli elementi che richiamano l’essere umano alla sua infinitesimale statura, proprio come farà il terremoto in un altro momento dell’esplorazione di Gabrielle, questa volta a Los Angeles, in un’imprecisata post modernità in cui il disagio si manifesta in un'enorme villa vuota e trasparente, in un malware informatico che apre infinite finestre, in un video su YouTube che diventa dichiarazione di intenti. La terra trema mentre Gabrielle si aggrappa ancora, vanamente, al tentativo di cercare nel riflesso (algido e cereo come George MacKay) dell’amore la possibilità di salvarsi.
Così le immagini mesmerizzanti del viaggio di Gabrielle diventano la forma cangiante e inquieta di una ricerca che non trascura alcuna possibilità, che prova ad affidarsi alla chiaroveggenza, alle visioni lisergiche, al revival, cercando nel non visibile o nel non più visibile almeno un tentativo di spiegazione del perché il dolore sia ciò che rende vivi, intelligenti, umani. Una ricerca spasmodica e senza speranza.
In un futuro prossimo in cui l’intelligenza artificiale regna suprema, le emozioni umane sono diventate una minaccia. Per liberarsene e purificare il proprio DNA, Gabrielle accetta di sottoporsi a una procedura che la porta a rivivere le sue vite passate. Tutte sono accomunate da due costanti: l’incontro con Louis, l’amore della sua vita, e una sorta di premonizione, il timore continuo di un’imminente catastrofe, una minaccia che attende di colpire come una bestia in agguato nella giungla.