Pete Docter, Ronnie del Carmen

Avanguardia per le masse

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“Solo l’imbecillità e il cretinismo propri della maggioranza dei letterati e delle epoche particolarmente utilitaristiche hanno reso possibile la credenza per cui i fatti reali siano dotati di un significato chiaro, di un senso normale coerente e adeguato”: così Salvador Dalì nel 1929, a commento e difesa di Un chien andalou, film manifesto del cinema surrealista.

Ma anche – per esteso - di un cinema allegramente in fuga dalla coerenza del cinema hollywoodiano: spalancando le porte dell’inconscio e facendolo tracimare sullo schermo, le avanguardie minavano alla base la convenzionalità della narrazione classica e al contempo compromettevano in partenza– senza rimpianti – la possibilità di destinare i propri film ad un pubblico di massa.

A quasi un secolo di distanza, quelli della Pixar provano a conciliare gli opposti: un film d’avanguardia per, non contro le masse. Nel quale la rappresentazione dell’interiorità di un personaggio non genera un caleidoscopio di immagini eleganti e criptiche, ma un solido meccanismo narrativo basato sul conflitto perenne fra cinque stati d’animo cui è affidato il compito di determinare l’umore del personaggio che li ospita.

Come già nel sublime Wall-E, dove forti soffiavano gli spifferi beckettiani, la Pixar prende un oggetto filosofico estremamente colto come la teoria degli affetti, su cui hanno scritto (per rimanere all’essenziale) Hobbes, Spinoza e Freud, e lo trasforma in un gioco spettacolare di irresistibile forza comica e, soprattutto, visiva. Perché i richiami alle avanguardie vanno ben al di là del fascino dei surrealisti per la rappresentazione dei territori del subconscio, della memoria e del sogno.

Nell’affrontare questa stessa sfida estetica - come si rappresenta qualcosa che, trovandosi dentro di noi, è per definizione invisibile? - il film guarda ai simbolismi cromatici di Kandinskij, al costruttivismo, alla pittura futurista italiana, nel complesso ad un’arte, quella di primo novecento, capace di inventare sempre giochi nuovi con le forme e i colori. Ne scaturiscono, soprattutto nella seconda parte, astrazioni cromatiche e universi immaginari di vertiginosa bellezza, che tuttavia non smettono mai, nemmeno per un secondo, di rimanere saldamente ancorati ad un racconto popolare, destinato a divertire spettatori di generazioni diverse e distanti.

Inside Out, dentro e fuori: molto più che un titolo, una vera e propria dichiarazione di poetica. Prima dentro il cuore pulsante di un cinema che per guardare all’inconscio non temeva di essere elitario, e poi fuori, verso il pubblico, per rendere questo stesso cinema non più elitario ma ludico e irriverente, gioioso e paradossale, bizzarro e accattivante. Avanguardia per le masse, appunto.

Alla Pixar da tempo cercavano la quadratura del cerchio: con Inside Out pare proprio che l’abbiano trovata.

Inside Out
Stati Uniti, 2015, 94'
Titolo originale:
id.
Regia:
Pete Docter, Ronnie del Carmen
Sceneggiatura:
Pete Docter, Meg LeFauve, Josh Cooley
Montaggio:
Kevin Nolting
Musica:
Michael Giacchino
Cast:
Mindy Kaling, Bill Hader, Amy Poehler, Phyllis Smith, Lewis Black, Kaitlyn Dias, Diane Lane, Kyle MacLachlan
Produzione:
Pixar Animation Studios, Walt Disney Pictures
Distribuzione:
Walt Disney

La giovane Riley è costretta a trasferirsi con la famiglia in una nuova città. Qui deve fare i conti con le emozioni che convivono nel centro di controllo della sua mente e guidano la sua quotidianità, e che non sono d’accordo su come affrontare la vita in una nuova città, in una nuova casa e in una nuova scuola.

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