Un ragazzo scende da un autobus nella squallida periferia di Kiev. Chiede a gesti informazioni ai passanti e si dirige finalmente verso l’istituto che ospiterà di lì a poco la sua vita. Sergey è sordomuto, come tutti gli ospiti – allievi e personale – della struttura: un mondo a parte, con il suo linguaggio e i suoi codici, fieramente contrapposti alla realtà esterna. L’inferno, lì dentro, ha le sue regole e i suoi rituali e l’esordiente Myroslav Slaboshpytskiy ci getta in quella realtà ovattata senza protezioni.
Il film è dialogato (e non poco) solo attraverso il linguaggio dei segni che non viene né sottotitolato né commentato con voce fuori campo. L’assoluto silenzio – interrotto solo da rumori improvvisi – corrisponde alla nostra barcollante estraneità. Pian piano però ci si abitua a decifrare, a osservare con puntiglio, a calarsi in un mondo dove tutto quel che avviene si vede e basta, in cui i fatti necessariamente assumono un valore assoluto.
Partendo da questa intuizione rigorosa e disagevole, The Tribe prova a descrivere una realtà in cui ogni personaggio combatte il suo isolamento monadico attraverso l’estremizzazione delle azioni. E dopo aver raccontato con carrellate orizzontali e lunghe scene senza tagli (adottando uno stile che estremizza le scelte di molto cinema d’autore contemporaneo) il contesto in cui i personaggi si muovono, Slaboshpytskiy si concentra sulla descrizione accurata di ciò che i protagonisti fanno.
Quello che sembrava essere principalmente un audace esperimento linguistico si trasforma in una litania compiaciuta e saccente sulla crudeltà adolescenziale in un universo, praticamente e metaforicamente, concentrazionario. I sordomuti infatti sono come gli altri, amano come gli altri, odiano come gli altri, ma sono prigionieri della comunicazione con l’esterno. Non potendo usare il filtro della parola, sono costretti a muoversi con gesti più secchi, estremi, assoluti, impossibili da fraintendere.
Lo sguardo glaciale di Slaboshpytskiy segue i personaggi intrufolandosi in un’aberrante intimità fatta di sfruttamento consenziente del corpo femminile, di violenza cieca e incontrollata, di sesso muto non solo di parole ma anche di emozioni. L’occhio registico, che dovrebbe essere calato in una realtà misteriosa quanto silenziosa, si fa sempre più morboso, sadico, superficialmente scandaloso e moralmente ambiguo.
La ricognizione sulla pulsione collettiva alla violenza e alla sopraffazione di chi è, volente o nolente, marginalizzato dal corpo sociale – The Tribe potrebbe essere una variante di Arancia Meccanica senza volume e senza emozioni – si riduce a un’esposizione complice e compiaciuta, più vicina all’impudicizia eccitata di Gualtiero Jacopetti e dei suoi Mondo cane che all’anarchia pessimista di Kubrick.
L’ostentazione di uno stile controllato e consapevole – nel gusto della composizione del quadro e nell’utilizzo dei piani sequenza – assume un carattere quasi persecutorio sbandando pericolosamente, almeno in un paio di scene, verso l’osceno e l’abietto. È come se Slaboshpytskiy, attraverso una storia che mescola con ovvietà amore e morte (o, meglio, sesso e punizione), volesse renderci partecipi di un perverso piacere del disumano che demolisce l’assunto “oggettivo” di partenza acquistando uno scontato sottotesto simbolico: invece che farci entrare in un mondo ignoto senza bussola per lasciarci osservare liberamente una realtà muta e sconosciuta, Slaboshpytskiy ci costringe a tenere gli occhi aperti di fronte a un orrore superficiale, con fervore nichilista e cinico, con sadica fissità.
La mano astuta del regista si sente ma la distanza tra la patinatura tutta esteriore della confezione e l’ardore quasi pornografico di un’osservazione livida e feroce rendono The Tribe un film anaffettivo, cerebrale e tetragono – allo stesso tempo trascurabile e disprezzabile, più pesante che pensato – nonostante tutto il febbrile e gelido clamore che con orgoglio prova a suscitare. Un film terribilmente urlato, anche in assenza di parole.
Bratislava, Cecoslovacchia, 1983. Maria Drazdechova è la nuova insegnante di un liceo della città, eccentrica e colorata conquista subito i suoi alievi. Ma quando, all'inizio dell'anno, pone ai suoi allievi la domanda su quale sia il lavoro dei loto genitori, qualcosa si incrina.