C’è una cosa che rende il giovanissimo Kantemir Balagov un regista straordinario, anche se solo al secondo film dopo la folgorante opera prima Tesnota: la capacità di gestire lo spazio dei suoi film, la messinscena che si sviluppa in pochi luoghi e si riflette sui personaggi, sulla loro presenza e la loro storia. In Beanpole (liberamente ispirato al racconto della Svjatlana Aleksievič La guerra non ha un volto di donna) il contesto è diverso rispetto al film precedente, che era ambientato a fine anni Novanta nella terra d’origine del regista, il Cabardino, al termine della prima guerra cecena; siamo ancora nel passato ma in un’epoca più distante e storicizzata: Leningrado, 1945, pochi mesi dopo la fine di uno dei più lunghi assedi della storia moderna, in un ospedale dove si curano i reduci del fronte. Tra le infermiere c’è Iya, ragazza bionda e altissima, una "spilungona" come recita il titolo internazionale (quello originale Dylda indica invece il gambo del granoturco), che tra le corsie accudisce i mutilati e a casa coccola un bimbetto di tre anni. Timida, silenziosa, congedata dall’esercito per uno stress post-traumatico che le provoca improvvisi black-out in cui il respiro e il corpo le si bloccano, Iya è una freak ma il film non la tratta mai come tale, non mette in relazione la sua fisicità eccessiva con lo sguardo degli altri. C’è qualcosa in più, in Beanpole: c’è una storia di relazioni e di scontri, di opposti e di scambi.
Iya ha un’amica, Masha, piccolina e scura di capelli, che le ha lasciato il figlio durante la guerra ed è tornata dal fronte per incontrarlo. Il bambino però non c’è più, vittima di un terribile incidente… La vita, la morte, la rieducazione, la sopravvivenza, il risveglio, ancora una volta in un’atmosfera di sospensione dopo una guerra: in Beanpole i resti dell’assedio sono visibili sui corpi dei personaggi, sono segni, macchie sulla pelle, vernice alle pareti, carta da parti, vestiti colorati, rosso e verde, rosso su verde, rosso contro verde… Forme e idee sono trasportate su un piano materiale e puramente visivo, sono vita che si fa cinema.
Il film si svolge in pochi spazi: l’ospedale, l’appartamento in condivisione dove Iya e Masha occupano una stanza, i tram che portano le due donne al lavoro, un vicolo scuro, a un certo punto una villa neoclassica bianca che pare uscita da un sogno… Le esigenze produttive di ricostruzione storica mininale sono trasformate in risorsa drammatica, in una forma compatta che ricorrendo quasi unicamente a primi piani e totali riverbera la relazione d’attrazione e repulsione delle due protagoniste, unite, incastrate e divise come in un film di Bergman, come in Persona. La condizione di donne sopravvissute, condannate come l'intero popolo sovietico a ripartire da zero, in un mondo dove la vita e la morte hanno assunto un valore numerico, oltre ogni morale, fa di Iya un angelo dal corpo possente eppure vuoto, quasi asessuata, una forza naturalmente, inconsapevolmente devastante, dispensatrice di morte e di speranza, e di Masha il suo contraltare: vitale, dagli occhi carichi di desiderio, vuota anche lei ma perché svuotata dalla guerra... Tra loro in realtà non c’è vera opposizione, ma conflitto, una perenne tensione che trasuda dai loro contatti fisici, dai loro sguardi reciproci, dai colori complementari dei loro vestiti, dalle scene che le vedono sole e dal montaggio che le mette comunque in relazione.
Beanpole è il racconto di due donne in un momento incerto dell’Urss, una cuspide tra l’annientamento e la rinascita, in cui a combattere non sono forze storiche ma universali, reazioni fisiche, esigenze emotive, istinti vitali, desideri di morte e di rinascita. Con le sue immagini calibratissime e coreografate, e al tempo stesso sempre minacciate dal fuoricampo (ed è questa forse l’eredità più autentica del cinema di Sokurov, maestro di Balagov), il film ha una forza impareggiabile e irresistibile: quella di trasmettere la Storia come «attrito del tempo» (Martin Amis). La devastazione e la redenzione si incarnano nei corpi e nei volti di donna delle due protagoniste, che sono illuse e vuote come la guerra non è mai stata e come solo il futuro sa essere.